Sull’Amicizia di Blanchot
L’operazione letteraria di raccogliere saggi critico-filosofici su opere e tematiche complesse e non sempre palesemente collegate fra di loro, suscita l’apice di stupore, in chi legge, nella scelta del titolo, coinvolgente quanto disarmante.
L’opera “L’amicizia” di Maurice Blanchot, la cui prima edizione francese risale al 1971, è stata ripubblicata quest’anno da Marietti 1820, è curata da Riccardo Panattoni e Gianluca Solla (che si sono occupati di redigere una intensa ed elaborata prefazione) ed è tradotta da Rosanna Cuomo e Monica Ghidoni. Si tratta di una di quelle opere che necessitano di una lettura approfondita e di un tempo di elaborazione psicologica ed intellettuale che sfuggano alle regole della fretta su cui, molto spesso, si basano gli scrittori ed i lettori contemporanei.
Perché l’amicizia?
Blanchot, radunando nei suoi scritti le sue pregiatissime qualità di scrittore, critico letterario e filosofo, ha composto questa crestomazia di note critiche, pronunciandosi su un gran numero di autori, di opere letterarie e saggistiche e di temi strettamente riguardanti l’umanità dal punto di vista della Francia di metà Novecento, con una ricchezza espressiva e concettuale che non smette mai di stupire e affascinare il lettore.
Il filo conduttore che lega le singole riflessioni di Blanchot, non sarà certamente spiegato da quest’ultimo, poiché la ragione intima e silente risiede nella modalità comunicativa e linguistica in cui l’autore decide di scrivere dei soggetti delle sue note (e, si badi, che si tratta esattamente di soggetti e non di oggetti del pensiero).
Blanchot affronta le opere di scrittori e pensatori che ha conosciuto e con cui si è relazionato per adesione (che mai sembra piena) o per distacco (anch’esso sempre volutamente parziale). Attraverso tali trattazioni saggistiche egli nutre ed esprime il suo personale e soggettivo senso di amicizia, inteso come “rapporto senza dipendenza”.
Il post-strutturalismo, il linguaggio e l’uomo
Leggere quest’opera che tratta con abbondanza affabulatoria i temi della morte e dell’assenza, all’interno del moto centrifugo della società contemporanea, in cui l’egotismo è il maggior predatore degli intellettuali e la paura della morte annichilisce molti dei tentativi di sottrarsi alla noia del quotidiano, ha certamente un forte impatto emotivo, nonostante la consapevolezza delle evidenti differenze storico-antropologiche tra le due epoche, il Novecento e il Duemila, contigue ma non coincidenti.
Se il post-strutturalismo ha dato all’uomo la sua chanche di tornare all’umanità attraverso la frattura dell’io, la divaricazione delle idee assolute, la scomposizione della propria (presunta) unità come caratteristica originaria (e non solo come trauma successivo e necessario) e la frammentazione del linguaggio attraverso la consapevolezza della sua tensione alla distruzione soggettivistica e oggettivistica, Blanchot spiega con impressionante lucidità il modo in cui l’individuo esiste (e
Come nasce l’uomo?
La scelta di partire da una riflessione su “La nascita dell’arte” non è casuale o autoreferenziale: l’origine chiama alla meraviglia e alla possibilità di esistenza attraverso l’arte, unica vera testimone della storia dell’uomo:
“Dunque, c’è sempre una lacuna: come se l’origine, anziché mostrarsi ed esprimersi in ciò che nasce dall’origine stessa, fosse sempre velata e nascosta da ciò che essa produce e, forse, distrutta o consumata in quanto origine, respinta e sempre più schivata e allontanata, cioè come originariamente differita”. E ancora:
“L’arte è legata all’origine che a sua volta è sempre in relazione con la non-origine: essa esplora, afferma, suscita, in un contatto che fa vacillare ogni forma acquisita, ciò che è essenzialmente prima, ciò che è senza essere ancora. E, nello stesso tempo, precede tutto ciò che è stato, è la promessa mantenuta in anticipo, la giovinezza di ciò che sempre comincia e non fa che cominciare”. A Lescaux, in quei graffiti rupestri, l’arte ha inizio e l’uomo concepisce la possibilità di “una permanenza eccezionale accanto a sé”, in cui sperimenta la consapevolezza che la sua stessa opera sancisce il suo ingresso nel mondo e la sua continua, più grave minaccia di esistenza.
La psicologia dell’arte
Segue la riflessione sull’opera di Andrè Malraux, come se Blanchot stesse svolgendo un’arringa che, da un’originaria ingenuità, conduce l’uomo alla colpevolezza della definizione.
Il “Museo immaginario” non solo è la “conquista dell’ubiquità” (come asserisce Paul Valery) tipica dell’arte moderna, e il mezzo della sua scoperta “ma è l’opera di quest’arte, potremmo dire il suo capolavoro, se non dovessimo dire che ne è pure, quasi segretamente, la compensazione”.
E ancora:
“il Museo è un universo senza vie d’uscita, una durata solitaria, l’unica libera, la sola che sia una vera storia, all’altezza della libertà e del dominio dell’uomo. Questa è l’arte: il Museo immaginario, più l’artista nuovo che vi rinchiude per essere libero”.
Ma nemmeno l’arte sfugge all’assenza, pur essendone testimone e diventando essa stessa “assenza di mondo”, contestazione di qualsiasi asserzione, parola senza soggetto, “tormento infinito” di cui l’uomo non può fare a meno nel suo percorso verso la salvezza e la distruzione, coincidenti nella dissoluzione della contingenza attraverso l’opera d’arte stessa.
Si giunge così a un’ulteriore assenza, “l’assenza come mondo” ma si sa bene (o lo si impara con Blanchot e con Malraux) che “la minaccia è certa, ogni arte è sempre minacciata da ciò che la placa” e che “esistendo il Museo, non possono più esistere opere vere, né vera quiete (né forse Museo) e che tutti i capolavori tendono a essere solo le tracce brillanti di un percorso anonimo e impersonale, proprio dell’arte nel suo complesso, che si orientano e si disperdono verso la macchia”.
L’apoteosi mistica e visionaria di questo residuo ultimo e, insieme, originativo, che è l’opera d’arte, si suggella nell’immagine “capace di negare il nulla” che è anche “lo sguardo del nulla posato su di noi”.
L’ultima parola all’amicizia
Lasciando al lettore il piacere della scoperta delle altre svariate tematiche trattate in questa raccolta di saggi, si menzionerà l’ultimo brano, che rappresenta la chiave di volta dell’opera, lo svolgimento più intimistico del pensiero dell’autore e uno dei momenti più commoventi del libro che pure non si concede (e non concede) a nessun sentimentalismo.
Appare doveroso fare un breve accenno ad un altro brano, “La parola vana”, in cui Blanchot scrive del romanzo “Il Chiacchierone” di Louis René des Foretes, annunciando che non sarebbe stata, da parte sua, “un’opera di critica”.
La sua riflessione parte dal ricordo delle parole dell’amico Georges Bataille, forse uno dei suoi più cari e, certamente, l’amico più presente in questa raccolta. Queste parole, pronunciate poco prima che morisse, indussero Blanchot a una lunga meditazione “mi domandò, sapendo quanto questo racconto toccasse anche me, se un giorno ne avrei parlato. Mantenni il silenzio. Quel silenzio che oggi ci accomuna, ma che sono il solo a ricordare e al quale devo cercare di rispondere, dando come un seguito a quel colloquio”.
Ecco che affiora, appena evidente ma di estrema prorompenza etica, il tema dell’amicizia.
“Di questo amico, come accettare di parlare? Né per elogiarlo, né in nome di una qualche verità”. E ancora: “Non ci sono testimoni. I più intimi non dicono che ciò che fu loro vicino, non dicono la lontananza che si affermò in questa prossimità e la lontananza cessa non appena ha fine la presenza”.
L’amicizia è quel rapporto tra assenze individuali (ma non reciproche) in cui ci si relaziona tra realtà ontologiche inconoscibili:
“Dobbiamo rinunciare a conoscere coloro a cui ci lega qualcosa di essenziale; voglio dire, dobbiamo accoglierli nel rapporto con l’ignoto in cui essi ci accolgono”.
L’estraneità dell’altro permea la nostra estraneità ma “non ci dà il diritto di metterci al suo posto, né il potere di prendere la parola in sua assenza”.
L’amicizia, proprio lì dove illude del suo soggettivismo, allarga l’orizzonte dell’ontologia nel linguaggio, introduce il neutro, innesca la presenza nella continuità endogena dell’assenza. Non è solo rispetto, riconoscimento, riservatezza: è la ragione della “dismisura della morte”, la separazione tra individui che hanno condiviso il movimento di estraneità e, morendo, cancellano la cesura, approfondiscono il silenzio, accettano l’inesistenza fino al punto di ritrovarsi nell’illusione del ricordo.
“Ma il pensiero sa che non si ricorda” e l’amicizia è, in ultima analisi, quel contrito viatico con cui si accompagna l’amico (e se stessi) verso quel dovuto oblio che rinuncia all’essere nell’essere.
Gisella Blanco