mercoledì, Settembre 27, 2023
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    Pasolini e Zigaina e il progetto di morte

    Il Friuli, terra di confine e di transito, è il luogo ‘magico’, dove si incontrano Pier Paolo Pasolini e il pittore Giuseppe Zigaina. Pasolini, in seguito ai bombardamenti che colpirono tutte le più grandi città italiane, si era stabilito nel 1943 a Casarsa della Delizia, il paese materno, a pochi chilometri di distanza da Cervignano dove invece era nato e cresciuto Zigaina. Si conoscono nel 1946 in occasione di una mostra collettiva a Udine. E’ un incontro determinante per entrambi dal quale nascono una profonda amicizia e numerose collaborazioni.

    ‘Io ero ontologico per lui, come lui lo era per me’ afferma Pasolini che all’amico dedica articoli e poesie come il poemetto Quadri friulani (1955), contenuto nell’opera ‘Le Ceneri di Gramsci’, e  I Reca (1969) presente in ‘Poesia in forma di rosa’.  Il Friuli per entrambi è il luogo dell’identificazione con le origini, un mondo archetipico osservato con uno sguardo simile, lucido e poetico.

    Zigaina illustra la raccolta di poesie Dov’è la mia patria (1949), collabora al film Teorema e quando nel 1971 Pasolini gira il Decameron è emblematico che scelga l’amico Zigaina per la parte del Frate Santo della novella di Ciappelletto. Quest’ultimo nel film è la controfigura di Pasolini stesso che sceglie l’amico come ideale confessore. Una scelta simbolica perché sarà proprio  lui che dopo la morte di Pasolini ne diventerà il più coraggioso interprete.

    Pasolini muore il 2 Novembre del 1975. Il suo corpo verrà ritrovato in un campetto di calcio sulle rive del mare di Ostia. Comincia allora il lavoro di ricerca e analisi di Zigaina che lo ha portato alla scelta di sdoppiare la sua vita di pittore e di scrivere di Pasolini partendo dall’unica prospettiva possibile per cogliere il senso della sua intera opera: la morte.

    Su questo argomento Zigaina scrive diversi saggi tra cui Pasolini e la morte. Mito, alchimia e semantica del nulla lucente (1987); Hostia. trilogia della morte di Pier Paolo Pasolini (1995); Pasolini e il suo nuovo teatro.’Senza anteprime né prime repliche’ (2003); Pasolini e la morte. Un giallo puramente intellettuale (2005).

    Zigaina decifra il ‘codice’ di Pasolini nascosto nelle sue affermazioni, nelle sue strategie linguistiche e, sotto il segno dell’alchimia, di Jung,  Mircea Eliade e Ernst Cassirer, esperienze culturali fondamentali per entrambi, interpreta tutta la sua opera che dalla fine degli anni Cinquanta è stata concepita dallo stesso Pasolini come ‘una messa in scena’ della sua vita, come un unico progetto che trova la sua compiutezza per mezzo della sua morte violenta.

    E’ dunque assolutamente necessario morire, perché, finché siamo vivi, manchiamo di senso, e il linguaggio della nostra vita (con cui ci esprimiamo, e a cui dunque attribuiamo la massima importanza) è intraducibile, un caos di possibilità, una ricerca di relazioni e di significati senza soluzione di continuità. (…) Solo grazie alla morte, la nostra vita ci serve ad esprimerci’ (P.P.P. Empirismo Eretico, 1972).

    La funzione della morte è determinante e  non può essere esclusa dalla sua vita-opera. E’ il punto prospettico necessario da cui guardarla e comprenderla. Per Pasolini tutta la realtà è un linguaggio, anche la morte.

    Per esprimermi compiutamente io devo morire. La mia morte dunque, come segno linguistico, come montaggio del film della mia vita‘.

    E la sua morte doveva miticamente trasformare la sua vita in un racconto che gli consentisse di sopravvivere entrando vivo nel mito. Doveva essere l’atto finale di un teatro che dura nel tempo e giunge poi ad una conclusione.

    ‘Il mio teatro non avrà né prime, né anteprime, né repliche (Manifesto per un nuovo teatro, 1968)

    Pasolini ha teorizzato, profetizzato e infine attuato la sua morte. Una morte ‘lucente’, creativa, che fa parte della recitazione del mito cosmogonico, il mito della creazione del mondo. Per Pasolini, però, non basta conoscere il mito dell’origine ma bisogna recitarlo, mostrarlo con la morte violenta attraverso la quale si reinventa e ricrea la vita. Ma non c’è creazione senza ritorno al caos, cioè senza distruzione. Pertanto la morte,  il sacrificio, sono fondamentali.

    (…) la morte non è ordine, superbi monopolisti della morte,

    il suo silenzio è una lingua troppo diversa perché voi possiate

    farvene forti: proprio intorno ad essa vortica la vita (La reazione stilistica, 1961)

     

    Il mito non è invenzione senza alcun rapporto con la realtà e Pasolini lo usa come elemento della sua macchina narrativa. Recita il mito di morte-rinascita a Ostia, che allude nel nome alla vittima sacrificale, in un tempo sacro, il giorno dei morti, nello spazio altrettanto sacro del campetto di calcio. Quest’ultimo è il temenos, il recinto sacro di epoca arcaica, spazio delimitato e fuori dalla città.

    La morte violenta di Pasolini ha comportato una preparazione ottenuta mediante allusioni, accenni, profezie che in sostanza doveva costituire quella che gli alchimisti chiamavano ‘amplificatio’,  la condizione cioè necessaria alla trasmutazione. Tutta l’operazione letteraria di Pasolini, dunque, poteva essere credibile solo con il compimento dell’opera. Il linguaggio doppio di Pasolini, l’ambiguità di alcune sue manipolazioni linguistiche, i diretti riferimenti al giorno dei morti, alla domenica e al luogo del suo personale martirio acquistano senso solo attraverso la sua morte e mostrano come stesse organizzando il proprio ‘trasumanar’ per sopravvivere nella memoria degli uomini.

    ‘La mia corsa non è una

    cavalcata ma un essere

    trascinato via con il corpo

    che sbatte sulla polvere

    e sulle pietre’ (Pier Paolo Pasolini)

     

    ‘E per protesta voglio morire di umiliazione.

    Voglio che mi trovino morto col sesso fuori,

    coi calzoni macchiati di seme bianco, tra

    le saggine laccate di liquido color sangue.

    Mi sono convinto che anche gli atti estremi

    di cui solo, attore, sono testimone,

    (in un fiume che nessuno raggiunge)

    avranno avuto alla fine un loro senso.’ (Porcile, 1974)

     

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