mercoledì, Settembre 27, 2023
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    Yves Bonnefoy, Nell’Inganno della Soglia (Il Saggiatore ed.)

    Se la traduzione di un testo poetico è una rischiosa e coraggiosa operazione intellettuale in cui l’ermeneutica non può prescindere dall’incrocio (talvolta dallo scontro silente) delle due soggettività autoriali, la nuova edizione di “Dans le leurre du seuil” di Yves Bonnefoy presenta, già a partire dal titolo italiano, una variante simbolica e rivelatrice rispetto alla precedente traduzione di D. Grange Fiori del 1990: da una minacciosa insidia si decide, trent’anni dopo, di optare per un più pacato inganno. Nasce, così, il titolo dell’opera in esame: Nell’inganno della soglia, a cura di Fabio Scotto e pubblicata nel 2021 da Il Saggiatore.

    Il curatore, d’altronde, riferisce nella prefazione di essersi ritrovato più volte a dialogare con il grande poeta (saggista e traduttore) francese e che ciò lo ha aiutato a cogliere i dettagli di una poetica complessa e finemente strutturata su approfonditi studi filosofici, scientifici e letterari, nonché sull’influenza (indiretta e non pacifica) del surrealismo.

    L’impianto filosofico informa ogni verso e ogni vuoto dei sette poemetti contenuti nella raccolta, trasla l’elegia del canto nell’oggettività empirica di una narrazione di esperienze quotidiane per rivelarne l’unificazione della confondente dicotomia platonica che allontana dalla possibilità della gioia:

    “Nulla è cambiato,

    Sono gli stessi luoghi e le stesse cose,

    Quasi le stesse parole,

    Ma, vedi, in te, in me

    L’indiviso, l’indivisibile si radunano”

    Cosicché, scrive ancora il poeta in un’altra poesia che impudentemente ricollego alla precedente per interconnessioni ideali e letterali:

    “E libero la gioia, che è il nulla,

    Dall’essere la colpa”.

    Innumerevoli topos (stella, sete, pietra, urto, fango, estate, temporale, infanzia, donna) percorrono il flusso semantico e gnoseologico della raccolta trasformandosi, a seconda dei singoli contesti ideologici, in correlativi oggettivi che conducono e riconducono istintivamente il sacro all’immanenza del reale, eleggendo l’attività onirica a fraudolenta chimera che illude sull’improbabile e indesiderata trascendenza cui si rinuncia di buon grado in favore dell’intensità del momento presente nella carnalità operativa del reale:

    “Ed è sognare, questo ancora, ma senza felicità,

    Senza aver saputo raggiungere la terra breve”.

    L’ambiguità del linguaggio (“la parola/Essendo incompiuta quanto l’essere sebbene/La sua gioia prenda forma: per contenere) rappresenta, prima dello stesso atto espressivo e, quindi, nel suo potenziale pre-creativo e immaginifico, la finitezza e l’imperfezionabilità umana che, per avventura, diventano forza escatologica:

    “Ma libera, e rassicura. ‘Scrivere’, una violenza

    Ma per la pace che sa d’acqua pura.

    Che la bellezza,

    Perché questa parola ha un senso, malgrado la morte,

    S’adoperi per radunare le nostre montagne”.

    Ecco che tra allitterazioni, ricorrenti anafore, lunghi climax ascendenti che si strozzano all’improvviso sul monito del verso più aspro, si insinua e si insedia la metafisica nella fisica, l’etica nell’estetica, il sacro nella carne di due amanti che simboleggiano l’unione panica delle dicotomie esistenziali nell’incanto dell’immanenza più spietata:

    “La parola ferita con la luce,

    questo, fosse anche

    quasi un dio che creasse quasi una terra,

    manca di compassione, non ha accesso

    al vero”.

    Se la divinità è il sembiante della molteplicità fenomenica e la figura mitologenica primaria attraverso cui si intuisce la visione laica ma non agnostica del poeta sul reale, l’oscurità recondita appare come unica, inequivoca luce sorgiva:

    “Si vede un dio spingere qualcosa come

    Una barca verso una riva ma tutto muta.

    Scoramenti sulla strada degli uomini,

    Calpestii, clamori sotto il cielo.

    Qui l’altrove stringe

    La mano operosa

    • Ma quando devia nel tratto oscuro,

    E’ come un’alba”.

    Cos’è la soglia se non l’emblema della (dis)misura, dell’ardire di non cedere alla lusinga del prima e del dopo, della resistenza all’interno e all’esterno, dell’incomprensibile sincretismo tra l’io e l’altro? Un inganno, forse, a cui siamo chiamati per esistere.

    “Sì, per la porta che vibra

    Del respiro

    Dell’apparenza forata

    (E se esco sarò cieco

    Nel colore)”.

    C’è una profonda e archetipica saggezza nel sentire immanente, nel credere che l’universalismo sia afflato terreno realizzabile nell’esperienza sensibile e incompiuta (che nulla invidia alle credenze di respiro trascendentale) per ispirare l’uomo alla più appassionata e collettivizzante preghiera di carne.

     

    Gisella Blanco

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