Come scrive in Esser volpe (Bompiani) Erica Benner, uno dei principali avversari di Machiavelli era il pensiero cattolico, in particolare. Lo scontro ideologico, con conseguenze materiali piuttosto rilevanti per il nostro pensatore, avviene con il cardinale inglese Reginald Pole, che accuserà Niccolò Machiavelli, in riferimento ad alcuni celebri passi de Il principe, di aver elaborato un pensiero diabolico.
Il cardinale mette in guardia i governanti dal pensiero di Machiavelli perché «lo scopo dei suoi insegnamenti è quello di agire come una droga che porta i principi alla follia esponendoli all’aggressione della loro stessa gente con la violenza selvaggia del leone e l’astuzia della volpe»[1].
L’etica
L’etica di Niccolò Machiavelli si basa su autori antichi come Tito Livio, Plutarco, Senofonte, Polibio, e non sulle scritture della cristianità, e non ammette le banalità morali del suo tempo, tende piuttosto a ridicolizzarle. Fondamentalmente la complessità del suo pensiero sta nel prendere le parti del popolo, dei tumulti, della spinta fondamentale alla libertà del popolo minuto, contro la spinta egemone a espandersi e dominare del popolo grasso, ma ciò avviene attraverso un fine metodo che potremmo definire dialettico ante litteram.
I rischi nell’affidare il destino a un solo uomo
«Quando Machiavelli descrive in quale modo Cesare Borgia accusò il suo stesso precettore facendolo poi tagliare in due pezzi ed esporre nella piazza di Cesena accanto al coltello insanguinato, dà ai suoi lettori un’immagine mostruosa di quello che possono fare i principi per mantenersi al potere – e prova come la vera intenzione dello scrittore nel Principe sia quella di denunciare la perversione tipica del governo dei principi. Il suo scopo era di avvertire la gente che vive nelle libere repubbliche sui rischi che si corrono quando si affida il proprio destino a un solo uomo».[2]
Il principe civile
Nel capitolo nono del Principe Machiavelli parla del principe civile, in realtà si riferisce alla fonte del potere del principe, che attiene al popolo, il cui scopo è il mantenimento della libertà. Vi è un’oscillazione – un clinamen – tra principato e repubblica, con una netta apertura al potere popolare.
Tale oscillazione – che potremmo anche riassumere come compresenza e reciproca implicazione tra caso e necessità – rappresenta la base di quello che Machiavelli stesso definirà regime misto, e che – solo – rende possibile l’esercizio della libertà. La libertà non è mai individuale, non attiene all’individuo ma all’equilibrio delle forze in campo: nobiltà, borghesia e popolo.
Monarchia, aristocrazia e democrazia
Già nella Politica di Aristotele era presente una tripartizione dei poteri: monarchia, aristocrazia e democrazia, con il conseguente perenne rischio di corruzione degli stessi poteri in tirannia, oligarchia e timocrazia. E proprio stando a ciò, la complessa visione politica di Machiavelli – pur oscillando ora per la repubblica democratica, ora per un principato comunque garante dei diritti del popolo – predilige il regime misto, dove per mantenere la libertà i poteri devono essere equamente distribuiti a seconda delle diverse appartenenze – da Marx in poi diremmo classi – sociali.
Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio
In seguito alla stesura del Principe (1513), in un tragico periodo di esilio, dal 1515 al 1517, Machiavelli si dedica alla scrittura dei Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio, dove ritroviamo nell’antica Roma, in particolare nella Roma repubblicana e pre-imperiale, la stessa oscillazione di forze, lo stesso regime misto, tra patrizi, senatori e tribuni della plebe, la cui coesistenza garantisce la libertà della comunità.
La corruzione
Il nodo della civitas corrotta non è altro che una sperequazione, un disequilibrio delle forze, in cui al massimo del caos coincide il massimo dell’autoritarismo, dunque, della corruzione. La corruzione ha a che fare con uno squilibrio delle forze in campo, con l’assenza di discordia, con l’assoggettamento a un unico sovrano.
Nel capitolo settimo dei Discorsi[3] Machiavelli affronta il problema della libertà e della sua difesa, nella fattispecie, analizzando la vicenda di Coriolano, che si sarebbe dovuto gettare dalla Rupe Tarpea perché aveva affamato il popolo; i tribuni decidono invece di processarlo. Si tratta di uno scontro che non segue vie predefinite, ma si conclude probabilmente con l’esilio (Secondo Tito Livio), ovvero con un epilogo che non prevede spargimento di sangue; perché si sarebbe trattato altrimenti di una vendetta di privati contro privati. In questo modo Machiavelli rimarca l’importanza delle istituzioni: uno scontro in assenza di istituzioni significa faida, è un modello tribale, che Machiavelli rifiuta.
La giustizia civile
Esiste un modo ordinario e un modo straordinario di affrontare i problemi legati alla giustizia civile, il modo ordinario attiene alle istituzioni, alla legge, il modo straordinario ai tumulti che si tramutano in faide. Machiavelli non condanna i tumulti, li accetta e li elogia, ma solo qualora siano in grado di dare vita a istituzioni. Se il tumulto diventa sanguinario e distruttivo si passa da un’idea di libertà a un’idea di giustizia privata, se un tumulto non genera leggi rischia di diventare presupposto per un regime tirannico. Ciò che voleva essere garante di libertà si inverte nella paura cieca del mondo, che presagisce la tirannia, dunque, la totale negazione della libertà in nome della sicurezza.
Il conflitto e il tumulto
Né la Roma repubblicana, né la Firenze del tempo di Machiavelli sono esenti da conflitti e tumulti; il conflitto può essere aspro e violento ma tale violenza può essere gestita mediante istituzioni, altrimenti genera paura, guerra fratricida, guerra tra bande, guerra tribale.
Al contrario, il tumulto che genera istituzioni e diversa redistribuzione delle risorse è superiore alla faida: la faida conferma il potere che vuole contestare; l’idea di repubblica tumultuaria di Machiavelli difende quella forma di tumulto capace di generare istituzioni, leggi. Il tumulto senza istituzioni non produce effetti benefici, le istituzioni senza tumulti sono negazione della volontà della plebe. Una terza via è l’accordo tra caso (tumulto) e necessità (istituzioni).
Ilaria Palomba*
(Fine prima parte)
* Ilaria Palomba è scrittrice e poetessa. Classe ’87, è laureata in Filosofia, ha tenuto laboratori di scrittura creativa nei centri diurni di psichiatria e presso alcune scuole; tra le sue pubblicazioni: Fatti male, tradotto in tedesco per Aufbau-verlag, Homo homini virus (Premio Carver, 2015), Io sono un’opera d’arte, viaggio nel mondo della performance art, Disturbi di luminosità, Deserto. Il suo ultimo romanzo è Brama, edito da Giulio Perrone. È ideatrice e redattrice del blog dissipatu.blogspot.com in cui svolge una ricerca sul disagio psichico.
[1] Erica Benner, Esser volpe, Firenze, 2017, p.14
[2] Ibidem, p.16
[3] Machiavelli, Discorsi sopra la prima Deca di Tito Livio, Milano, 2021, p.80
Altri articoli della stessa autrice:
L’inclinazione alla minaccia di morte. Ilaria Palomba (seconda parte)
Il suicida obbedisce alla realtà. Ilaria Palomba (Terza ultima parte)
Il sacro e la poesia in Martin Heidegger. A cura di Ilaria Palomba