Una madre raccoglie fave, ceci, piselli, fa fascine di legna nei boschi, prepara il maiale, ingozza le oche, munge le vacche, in giro per campi, fattorie e case private, ovunque le offrano qualcosa da fare e, in cambio, le diano qualche mela, del cibo oppure del vino.
La figlia, bambina, le sta sempre dietro, la rincorre, reggendosi a stento sulle sue magre gambette, quando la raggiunge, la madre le dice: “Non starmi tra i piedi” e si rimette al lavoro.-
Tra la madre e la figlia prevalgono silenzi e lontananze di corpi e pensieri. La gente del paese le scruta, le deride, le giudica, spesso le evita. Altrettanto fanno i ricchi parenti, zii, cugini, la nonna, madre della donna.
Soltanto il nonno riserva sempre una parola gentile alla nipote e un pensiero affettuoso per la figlia, ripudiata e cacciata a diciassette anni ché si è macchiata di un’onta indelebile: stuprata da un uomo, di cui non ha mai rivelato il nome, è rimasta incinta e ha avuto la piccola Marie, memoria vivente della violenza, della vergogna e del bando familiare.
Solitudine, disperazione, abbandono e miseria, qualche smunto animale sono le uniche compagnie delle due donne, il vuoto che le circonda è assordante, come i loro rispettivi silenzi.
Madre e figlia si arrangiano a vivere, in una casupola scalcinata, arredata con lo stretto necessario, sperduta nella campagna, dove solo la natura è loro vicina e sodale, come quando il vento soffia tra i salici o l’acqua gorgoglia nei ruscelli.
È una vita di stenti la loro, di privazioni, che sembra però trovare, prima, un proprio equilibrio, poi, addirittura un riscatto: per entrambe, quello dell’amore fatto di attenzioni e parole gentili. Ma è soltanto un’illusione: per Génie la matta e sua figlia Marie non può esserci redenzione, né pace alcuna o tregua.
Così la gioia e la serenità, conquistate a fatica, se ne vanno all’improvviso e dietro di esse non restano che distruzione e macerie, e nessuna consolazione.
Génie la matta
Génie la matta, secondo romanzo di Inès Cagnati, pubblicato in Francia nel 1976, divenuto subito un grande successo di pubblico e critica (ottenne il Prix des Deux Magots) e ora pubblicato in Italia da Adelphi, nella traduzione di Enea Marchi, narra la loro storia.
Lo stile
La lingua è per lo più scarna, fatta di cose e oggetti concreti — la terra, il fango, la paglia, il secchio, il latte, la vacca —, e silenzi, che celano emozioni e sentimenti.
Eppure, tra le maglie di tanta desolazione, la poesia, alfine, filtra, quindi sgorga, soave e seducente. E avvince il lettore attraverso una storia, in cui l’amore materno non è mai certo, sicuro, scontato, ma sempre precario e minacciato, e a chi è bambino non resta che rincorrerlo, attenderlo, presidiarlo, senza riuscire tuttavia a metterlo in salvo.
L’autrice
Inès Cagnati, attraverso gli occhi e le parole della piccola Marie, racconta con una sensibilità e sobrietà davvero incredibili, la solitudine dell’infanzia, le sue contraddizioni e sofferenze, le sue illusioni e tradimenti, le sue fratture, a fatica (o forse mai) ricomposte nell’età adulta.
E il lettore, smarrito e trasognato, si ritrova, proprio come Marie, a rincorrere e vagheggiare il ristoro che un tempo gli derivava dall’affondare la testa tra il collo e la spalla della mamma: là dove ogni bambino trova rifugio e cerca una promessa, quella dell’amore puro, assoluto, gratuito.
Flavia Todisco