Si è spento sabato scorso a Parigi, all’età di 97 anni, Peter Brook, uno dei padri e dei
maestri indiscussi del teatro contemporaneo. La sua ultima apparizione, sia pur
virtuale, dinanzi al pubblico italiano risale a pochi mesi fa, quando, dallo schermo del
telefonino dello stilista Brunello Cucinelli, direttore del Teatro Stabile dell’Umbria,
ringraziò commosso al termine della rappresentazione de La Tempesta di
Shakespeare, allestita nel piccolo teatro di Solomeo.
Peter Brook e l’Italia
Era innamorato dell’Italia, Peter Brook, e per un lungo periodo fu possibile
incontrarlo a casa Nonino in Friuli, dove giunse la prima volta nel 1991, per ricevere
il Premio come “maestro del nostro tempo”. Poi entrò in giuria, e due anni dopo
riuscì a far assegnare quello stesso riconoscimento a Jerzy Grotowski (il regista
polacco figura di spicco dell’avanguardia teatrale novecentesca da Brook sempre
considerato un maestro). In queste occasioni lo si poteva incontrare spesso in
compagnia della moglie Natasha Parry, attrice di indiscussa classe, per la quale
aveva allestito, su misura, Giorni felici di Beckett. Anche i figli dell’artista, Simon e
Irina, si occupano di teatro, la figlia in particolare è regista residente al Teatro Stabile di Venezia.
Peter Brook nacque nei pressi di Londra il 21 marzo del 1925, da genitori di origine
baltica (il padre era nato in Lettonia e per motivi politici emigrò giovanissimo a
Parigi, seguito da Ida Janson, la ragazza che presto sarebbe diventata sua moglie. Si
laurearono entrambi alla Sorbona, per poi trasferirsi prima a Liegi e poi nella
capitale inglese, dove presero la cittadinanza britannica e il loro cognome
dall’originale Bryk, già trasformato in Francia in Brouck, divenne definitivamente
Brook) dopo la laurea, conseguita all’università di Oxford, si formò dal punto di vista
teatrale alla Royal Shakespeare Company. Fu direttore del Covent Garden, e poi
della stessa istituzione shakespeariana. Ebbe modo di dirigere, in palcoscenico ma
anche in qualche film, giganti della recitazione quali Paul Scofield e John Gielgud,
ma anche Laurence Olivier e Orson Welles. Diresse altresì attori che sarebbero poi
diventati celebri, come Helen Mirren, che divenne una delle colonne portanti del
suo teatro parigino.
Accanto ai classici amava e portava in scena opere di autori nuovi che lui contribuì a
far conoscere e a rendere grandi, si tratta di autori quali Genet e Beckett, ma anche
Peter Weiss, il cui Marat Sade (1964) consacrò tra i massimi drammaturghi del
Novecento.
Orghast
Impossibile non ricordare Orghast, considerato il più prodigioso lavoro sulla voce
che sia mai stato realizzato in teatro e che Brook allestì nel 1971 a Persepoli, in Iran.
Quando nel 1974 si trasferì a Parigi decise di fondare un nuovo teatro, aperto alle
novità e tutto suo. Prese pertanto un vecchio teatro ottocentesco, ubicato tra la
Gare du Nord e Pigalle: Les Bouffes du Nord. Era quella una zona abitata
prevalentemente da immigrati, ma Brook riuscì a farne una delle capitali del teatro
mondiale, dove pubblico e critici si recavano, quasi in laico pellegrinaggio, da ogni
parte del globo. A dirigere tale struttura, assieme a lui, volle Stanislas Lissner, poi
chiamato a sovrintendere alla Scala, e ora al San Carlo di Napoli.
A Les Bouffes prese forma una lunga teoria di opere che non è retorico definire
capolavori. A rendere possibile tutto questo contribuì anche la rete di collaboratori
di cui Brook si circondò, come Micheline Rozan, per la direzione organizzativa, e di
Jean Claude Carrière, grande drammaturgo e sceneggiatore anch’egli recentemente
scomparso.
Mahabharata (1985)
Tra le opere allestite in questo periodo resta memorabile, fra le tante, il
colossale Mahabharata (1985), poema epico sulla mitologia indù che consentì al
pubblico occidentale di accostarsi alla cultura e alle leggende delle favolose e
lontane terre d’Oriente e che ancora oggi è considerato la summa del teatro di
Brook. Enorme fu l’impegno produttivo, il numero e la dedizione degli attori, fra i
quali spiccava il nostro Vittorio Mezzogiorno, e la stessa, notevole, durata delle
prove. D’altra parte tutto questo dispendio di tempo ed energia non deve
sorprendere: lo spettacolo si protraeva per l’arco straordinario di nove ore, e dopo
anni di repliche in tutto il mondo, divenne anche un film. In Italia questo gigantesco
kolossal andò in scena al Fabbricone di Prato.
Di primaria importanza è anche lo studio sui testi psicologici del presente: da L’uomo
che scambiò sua moglie per un cappello (1993) di Oliver Sacks a Je suis un
phénomène (1998), tratto da Una memoria prodigiosa di Aleksandr Lurija, il
fondatore della neuropsicologia.
Georges Ivanovič Gurdjieff
Brook deve molto agli insegnamenti di Georges Ivanovič Gurdjieff, di cui venne a
conoscenza soprattutto grazie a Jeanne de Salzmann. Elementi tipici della dottrina di
Gurdjeff sono presenti in tutta la sua riflessione teorica sul teatro, e proprio sulla
vita di Gurdjeff è incentrato il film Incontri con uomini straordinari, che Brook
diresse nel 1979 traendolo dall’omonimo romanzo del filosofo, scrittore, mistico e
musicista armeno.
Nuova vita al teatro di tradizione
Dotato di uno sguardo curioso sul mondo e sulla vita che poi trasfondeva nelle sue
opere, Peter Brook da un lato ha dato nuova linfa al teatro di tradizione (è
universalmente considerato uno dei maggiori interpreti novecenteschi del teatro
elisabettiano) dall’altro ha saputo esplorare nuove possibilità artistiche e ha portato
in scena opere e autori sperimentali. Negli anni Duemila ha rappresentato testi di
drammaturghi che hanno dato voce alla coscienza critica dell’Africa postcoloniale:
restano impresse nella memoria opere come Le costume di Can Themba (1999),
Tierno Bokar (2004) tratto da Amadou Hampâté Bâ, scrittore filosofo e antropologo
maliano, e Sizwe Banzi is Dead (2007) di Athol Fugard, John Kani e Winson Ntshona.
L’eredità di Peter Brook
Peter Brook ci ha lasciato anche diversi libri nei quali racconta la sua visione e la sua
esperienza del teatro, al 1968 risale Il teatro e il suo spazio, poi ripubblicato nel 1998 col titolo Lo spazio vuoto, del 1988 è Il punto in movimento: 1946-1987, mentre La porta aperta è uscito nel 1994 ed è stato ripubblicato nel 2005. Nel 2001 esce I fili del tempo: memorie di una vita, una sorta di memoriale che lui stesso considerava a metà strada tra biografia e autobiografia.
La chiave del teatro di Peter Brook sta forse tutta nella semplicità che riesce a
infondere forza e potenza alla narrazione, traducendosi in uno stile di penetrante
intensità. Una lezione che non dimenticheremo.
Antonella Falco