– Mamma quando mi hai desiderato?
-Gli occhi azzurri di Martina mi perforano con una richiesta di trasparenza. Sembrano la baia di Nora, dove è cresciuta tra scogli e pesciolini. Solo lei può chiedermi quando e non quanto. Ci devo provare, glielo devo. Le sono grata di Bellezza e Poesia. Oltre ogni retorica di maternità. Ma sempre oltre ogni retorica di maternità il serpentone della rabbia mi stritola le viscere. Sguazzo nel tipico sentimento di conflitto madre/figlia. Voglio starle vicino ma anche torturarla un pochino.
Come posso punirla?
Ecco lo so, salgo in cattedra e le impartisco una bella lezioncina sulla maternità, una conferenza pallosissima, la uccido di pesantezza.
– Mamma?!
Inforco addirittura gli occhiali… e parto convinta.
– Ti ho desiderato un secondo prima di sapere che ero incinta. Nel momento stesso in cui ho formulato il pensiero e ho visto l’asticella del test diventare azzurra. Non avevo mai pensato di avere figli, la mia generazione e la mia formazione non aveva messo in conto quella eventualità. Ci eravamo finalmente affrancate dall’obbligo di procreare. Non si contemplavano bambini. Ma con tuo padre ho commesso un errore, l’unico sino a quel momento. Non sono più tanto sicura che sia stato un errore sai? Forse è stato un calcolo preciso e deliberato. Ogni dieci anni circa devo fare un cambio violento nella mia vita e rinascere dalle mie ceneri. Credo che da qualche parte del mio cervello avessi deciso di avere una figlia, o forse c’era una figlia che mi cercava e voleva trovarmi.
Vedo Martina muoversi a disagio sulla sedia. Non capisce se dico sciollori o no. Non penserà che abbia già finito vero? Sono appena all’inizio.
– Conoscevo tuo padre solo da due mesi, ma potevo farmi carico di te anche se non avesse voluto riconoscerti. Lo mettevo in una condizione che non aveva minimamente previsto, il senso di colpa mi dilaniava, ma non avevo dubbi. Avrei portato avanti la gravidanza, il corpo era mio, con padre o senza. Meglio con, sicuramente, ma ero una donna indipendente, avevo una rete sociale e familiare potente che mi sosteneva ed era già tardi. Sì, era tardi. Era quel momento in cui non mi restava troppo tempo, mi sarei potuta pentire nel futuro. Ero circondata da donne che avevano dovuto prendere decisioni accondiscendenti con una realtà sfavorevole in gioventù e che si erano poi pentite amaramente, quando in età più adulta avevano cercato di avere figli che non erano più arrivati. Leggevo il rimpianto nei loro occhi, pagavano l’impossibilità di non aver potuto portare avanti la gravidanza a causa di condizioni avverse. Io ero stata fortunata, paranoicamente attenta forse, ma non avevo mai dovuto fare quella orribile scelta. Sono rimasta incinta quando ero già una donna autonoma e consapevole di tutto, anche dello scarto fra la rappresentazione edulcorata di essere madre e la realtà. Consapevolezza pur sempre ancora troppo lontana dalla sua complessità.
Mi compiaccio degli aggettivi che uso, dei sostantivi. Sono d’una noia mortale, pedante, pretenziosa. Mi tolgo gli occhiali, li rinforco.
– Tutto è faticoso, nulla è naturale. Il tuo corpo viene invaso poco a poco e le paure si moltiplicano. Il parto è un momento eroico: sopravvivere a due ostetriche enormi che ti saltano sulle costole per aiutarti a dilatare la vagina in una posizione innaturale.
Nelle mie letture viene contemplata una percentuale di donne che prova sensazioni vicine all’orgasmo durante il parto. Perché non potevo essere una di quelle maledizione? Invece no, solo dolore grazie! Quel trauma mi ha impedito per anni di pensare ad altri figli, ancora lo ricordo come un dolore sconfinato, da arrestare immediatamente, senza paragoni con altro, forse vagamente con le coliche renali. Ti bagni, sanguini, ti fai la pipì addosso, lo sfintere anale diventa anarchico, ma questo non si narra tanto. È un corpo non raccontato, solo ultimamente spettacolarizzato. Esiste uno spazio intermedio tra privato e pubblico spettacolarizzato figlia mia? Perché io non lo so.
Pausa calcolata, effetto teatrale. La guardo al di sopra delle lenti. Ha gli occhi un po’ sbarrati, è la prima volta che sono così cruda e pulp.
– L’immagine proposta è quella di un roseo neonato fra le tue braccia. Invece tu sei così stanca e dolorante che vorresti solo riposare e scappare. Ma del resto, anche se scappassi, non riusciresti a fare più di due passi. Sembreresti uno zombie che cammina a gambe aperte fra le corsie d’ospedale e riconosceresti chi ha partorito naturalmente e chi ha fatto il cesareo.
Quando sono rimasta incinta ero curiosissima di capire cosa fosse il parto e cosa avrebbe fatto il mio corpo, avevo ancora l’illusione di poterlo guardare dall’esterno e di aspettare la cicogna dal cielo. Fare la peridurale era un problema ozioso che non si poneva all’ospedale di Cagliari, come non si poneva nemmeno il problema di partorire con qualcuno a fianco che ti sostenesse. Il mio senso del pudore, inoltre, rincarava la dose: non volevo che nessuno mi vedesse soffrire a parte mia madre, tua nonna, la quale è potuta entrare solo subito dopo e prenderti in braccio, mentre io, con le lacrime agli occhi, le dicevo “aiuto mamma, che dolore mamma”. Ma lei guardava solo te, ero già diventata invisibile. E ora mi prendo una tequila ma la voglio bum bum.
Allungo il braccio con posa calcolata. Vedo Martina che disperata cerca lo sguardo complice della cameriera affinché la liberi dalla tortura di una madre infervorata.
– Dopo tre giorni siamo tornate a casa e sono cominciate tutte le altre nuove paure e la depressione post partum. Credi che mi sia passata?
Da donna libera che ero stata sino a quel momento ora mi sentivo presa al laccio, anche se piumato. La maternità è grande bellezza ma anche solitudine, sei sola con i tuoi spettri. Non sai mai se ce la farai, sentirai la responsabilità di un altro essere e la sentirai per tutta la vita. Non sarai mai più tranquilla. E la paura della morte ti ossessionerà, come quando sei figlia e hai paura che muoia tua madre, ora sei madre e hai paura che muoia tua figlia. Sarei morta di dolore senza te, ma anche senza il dolore dell’assenza è la maternità stessa che ti impone di morire. Essere madre ti uccide l’identità, ti scompone il senso del tempo, dello spazio e della stessa vita. Devi ricostruirti daccapo e devi aiutare tua figlia a costruirsi, ma sempre nella continua tensione tra proteggerla e lasciarla libera e sempre con l’umiltà di non sapere se sei nel giusto equilibrio. E quando tua figlia crescerà e ti rifletterai nei suoi difetti, così come in quelli di tua madre, proverai rabbia e fastidio e avrai spesso la tentazione di rifuggire dal ruolo. Perché è difficile essere madre. Forse le nonne servono proprio a questo, ti salvano perché saltano una generazione.
Sei molto giovane ma il corpo è tuo, lotta sempre per rivendicarlo. E anche se sarà un semplice ritardo andiamo a comprare il test.
Mi sono alzata compunta unendo pollici e indici delle mani. Martina è ormai accasciata sulla sedia, assolutamente confusa dalla mia pièce teatrale, lo sguardo sofferente. Ma le dura un attimo e la scintilla dell’ironia le riaccende l’azzurro dell’iride.
– Mamma?! Scusa mamma, c’è qualcosa di bello in tutto questo sermone vetero-femminista? Oltre alla tequila bum bum naturalmente!
– …
-Mamma?!
Mi riavvolge la tenerezza.
– …
– Sì, c’è. Lo stupore infantile di ogni volta che mi chiami mamma. Mi guardo dietro per essere sicura che stai chiamando proprio me, che sono proprio io tua mamma. Si compie un piccolo miracolo ogni volta: la gioia che sino a quel momento ci sono riuscita.
Elisabetta Betti – Spanu*
*Elisabetta Spanu (Cagliari, 1961), laureata in Filosofia e specializzata in Psicologia, ha insegnato nella scuola superiore come docente di Filosofia e Scienze Sociali. Ha pubblicato numerosi racconti, alcuni vincitori di concorsi in Spagna e Italia e, nel 2013, il suo primo romanzo, Dodici chicchi d’ uva (Happy Hour) con lo pseudonimo Lisa Elisa. Attualmente collabora con l’ Associazione Culturale Meninas Cartoneras di Madrid per la quale ha pubblicato, nel 2021, la raccolta di racconti brevi Amores (des) plegados nella versione spagnola e italiana.