domenica, Maggio 18, 2025
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    Guadalupe Nettel, Il corpo in cui sono nata, La Nuova Frontiera

    Il corpo è il veicolo tramite il quale, letteralmente, veniamo al mondo e, crescendo, ci riveliamo a esso, attraverso un lungo percorso di disvelamento che, a un certo punto delle nostre esistenze, ci dovrebbe portare alla sua — e nostra — accettazione, consentendoci di vivere appieno i nostri desideri e passioni.

    Il corpo è il luogo

    Il nostro corpo, in realtà, è anche un luogo, il luogo per antonomasia in cui nasciamo e abitiamo, vivendo in esso e su di esso le nostre gioie e speranze, le delusioni e le eventuali sconfitte.

    Viviamo nel corpo, del corpo viviamo, con esso ce la prendiamo se il nostro rapporto con ciò che si trova all’esterno — la realtà fatta di cose e persone, ovvero altri corpi — non ci piace e non funziona, perché ciò che sta là fuori non ci accetta e non interagisce con noi, nel modo in cui vorremmo.

    L’infanzia e il corpo

    Nell’adolescenza il percorso, al tempo stesso, di svelamento e nascondimento, mortificazione e accettazione del e nel nostro corpo è più accidentato, in essa la lotta è più feroce, ma le sue radici spesso affondano nell’infanzia, nel corso della quale, con maggiore o minore disinvoltura, ci avventuriamo nella vita e nella sua condizione naturale: la condivisione dello spazio e del tempo con altri corpi, a loro volta in lotta fuori e dentro di sé. Anche l’infanzia può essere, quindi, un campo minato, in cui la battaglia è crudele e spietata e, quasi sempre, ci vede soli a misurarci con nemici reali o immaginari.

    Guadalupe Nettel, ne Il corpo in cui sono nata

    Spesso la letteratura ne parla, permettendoci di constatare quanto sia pugnace lo stare nel mondo. Lo fa anche Guadalupe Nettel, ne Il corpo in cui sono nata, La Nuova Frontiera, un’autobiografia ragionata, nella quale l’apprendistato alla vita si gioca tutto attorno al corpo dell’autrice, prima bambina e poi adolescente, infine donna adulta e matura, scrittrice ormai affermata.

    Il libro

    Il corpo costituisce, infatti, il terreno su cui Nettel, dall’infanzia, guerreggia con sé stessa — deve accettare un piccolo neo bianco, una piccola “voglia”, come lei stessa la chiama, sulla cornea dell’occhio destro —, oppure lotta con la propria famiglia — ha una madre ingombrante, che “affettuosamente” la chiama scarafaggio, ossessionata com’è dalla necessità di correggere il suo occhio e la sua postura, ma è spesso assente o distante, perché impegnata a ricostruire il puzzle della propria esistenza; anche il padre è per lo più assente, viene infatti recluso per anni in un penitenziario.

    La lotta contro il mondo esterno

    Mentre la nonna, cui lei viene affidata insieme al fratello minore, nel periodo in cui la madre va a vivere in Francia, è piuttosto severa e in netto contrasto con l’educazione decisamente liberale e anticonformista, ricevuta dai genitori agli inizi degli anni Settanta  —, ma Guadalupe lotta anche con il mondo esterno — in primo luogo con i compagni delle elementari, che la scrutano e la isolano a causa del cerotto che, per anni, deve portare sull’occhio sinistro, per stimolare e rafforzare il destro; quindi con i compagni e le compagne del liceo, che “non la vedono”, pertanto la ignorano.

    La lettura

    In tale apprendistato, però, proprio ciò che sembra un ostacolo — una macchia sull’occhio — , frapposto dal proprio corpo all’interazione con gli altri, consente all’autrice di scoprire, quasi per caso, le sue due più grandi passioni, che costituiscono anche la sua vera natura: l’abitudine alla lettura, che sviluppa fin dai primi anni di scuola, e l’attitudine all’affabulazione, in quanto, per vendicarsi dei compagni, alle elementari inizia a inventare delle storie —  sono questi i suoi primi scritti —, in cui fa vivere loro ogni sorta di disavventura e, spesso, li fa morire fra atroci sofferenze.

    La scrittura

    Eppure, proprio quei racconti, le consentono di ritagliarsi il proprio posto all’interno della scuola: i protagonisti delle sue storie, che la maestra le fa leggere alla classe, si complimentano infatti con lei, mentre gli altri — gli esclusi — le chiedono di coinvolgerli in quelle che scriverà.

    La scrittura non elimina le marginalità, ma le rende meno opprimenti — suggerisce l’autrice — e la vita, che sostanzialmente è un grande paradosso e, spesso, in netta contrapposizione rispetto alle nostre convinzioni e aspettative, finisce col sorprenderci, risolvendo a suo modo le situazioni che ai nostri occhi risultano complesse e irrimediabilmente compromesse.

    L’apprendistato della diversità

    È un apprendistato della diversità o, meglio, di un’unicità peculiare — non siamo forse tutti un po’ bislacchi e imperfetti? Chi è basso, chi troppo magro, chi ha il naso grosso, chi le gambe storte, chi è taciturno, chi… —, quello che narra e descrive Guadalupe Nettel, il suo, in cui la parola è sovrana e le permette di scandagliare “il mosaico” di immagini, ricordi e emozioni, che respira e ricorda con lei, mentre “interagisce con gli altri e si rifugia nella penna come altri si rifugiano nell’alcol o nel gioco”.

    L’antidoto al male di vivere

    La scrittura può, dunque, rappresentare una dipendenza per chi scrive, costituendo una sorta di antidoto personale al male di vivere. A Guadalupe Nettel, in effetti, consente di arrivare finalmente ad accettare il corpo in cui è nata, senza nasconderlo né combatterlo più, giungendo quasi a rimpiangerlo, quando, adulta, lo vede ormai modificato dalle ferite, dai segni e dai cambiamenti che lei stessa e ciò che ha vissuto vi hanno apportato.

    La trasformazione ineluttabile del corpo

    Sembra una legge iniqua e immutabile quella che l’autrice tratteggia nel finale: proprio quando abbiamo imparato ad amarlo, il corpo non è già più ciò che era, quando ci ha accolti e siamo nati, inesorabilmente destinato, come è, a trasformarsi e deteriorarsi ulteriormente, fino al momento in cui lo lasceremo, insieme al mondo, che ci ha ospitati.

    Il corpo in cui sono nata è una lettura piacevole e curiosa, in cui molto è taciuto eppure tutto viene svelato; è molto più di un’autobiografia “irriverente” della propria infanzia, è un cameo prezioso, in cui la scrittura avanza con naturalezza e spontaneità, sapendo essere ora sagace, ora ironica e, talvolta, persino spietata.

     

    Flavia Todisco

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