Donne come Sarah Bernhardt ci ricordano che l’arte attraversa le nostre vite, rompe gli argini delle costrizioni imposte dalla società nelle varie epoche, diventando quel «luogo del possibile» dove la rappresentazione scenica e la realtà quotidiana si intersecano con una passione senza eguali.
Incantatrice di scrittori, di pittori, di donne di cultura e uomini di scienza, Sarah Bernhardt offre al palato e agli occhi del pubblico un teatro nuovo, trasformando il palcoscenico in un altro mondo: trasfigurato, illuminato, alterato.
Celebre è l’accorato ricordo di David Herbert Lawrence dopo aver visto Sarah Bernhardt interpretare La signora delle camelie: «Rappresenta tutte le passioni primordiali della donna ed è estremamente affascinante. Una donna simile io potrei amarla, amarla alla follia, anche solo di una pura passione sfrenata».
Così come conturbante fu l’incontro con Georges Clairin e Alphonse Mucha (di quest’ultimo musa ispiratrice di molte sue opere), per non parlare di Sigmund Freud ammaliato dalla sua capacità di recitazione.
Con Bernhardt, assistiamo a una trasformazione della recitazione («la più femminile delle arti») dove la perfezione della dizione cede il posto alla «ricerca delle sensazioni e dei dolori umani», allo studio del corpo e della voce, alla femminilità per portare sul palco tali dolori e tali sensazioni.
Ed è proprio la femminilità ad essere al centro del suo studio, così come le passioni nelle interpretazioni di donne travolte dal sentimento. Ma Sarah Bernhardt non si sottrae all’interpretazione anche di personaggi maschili. Indossando i panni di un uomo, «l’anima bruciava il corpo»: la maschera non copre il volto ma fissa l’identità e tale rimarrà fino alla fine della rappresentazione. Siamo difronte al pirandellisme e alla trasmutabilità pirandelliana che, negli stessi anni, venivano salutate in Italia (e non sempre con entusiasmo) dalla critica e dal pubblico.
Il dualismo sul palcoscenico
L’arte teatrale implica quello che Bernhardt definisce uno «sdoppiamento incessante della personalità». E se la «coscienza vola di età in età, di popolo in popolo, di strato sociale in strato sociale, di eroe in eroe, in un movimento di migrazione continua», come scrive Bernhardt, l’attrice (o l’attore) è investito dal suo nuovo io, un’identificazione totale con il personaggio che, alla maniera pirandelliana, esce dalla scena e reclama una propria identità, un’esistenza. Esserci per il solo fatto di trovarsi.
La metamorfosi per raggiungere l’identificazione totale con il personaggio, con il suo nuovo io, nasce nel corpo per irradiarsi nella voce e nella mente.
Femminile e maschile
È nel corpo che si annullano le differenze tra i due sessi, che avviene quella compenetrazione tra femminile e maschile che porta sulla scena, per la prima volta, rompendo con i retaggi del teatro del Settecento, un tipo di personaggio chiamato «insexuées». In questo processo di identificazione e sdoppiamento, Bernhardt osserva come la donna (e in particolare modo la sua persona) sia soggetto pienamente consapevole di una drammaturgia innovativa.
Finzione e verità
C’è un aspetto sul quale, secondo l’opinione di chi scrive, tutti possono trovarsi d’accordo: Sarah Bernhardt ha dato espressione, con genialità assoluta per la sua epoca, al dualismo finzione-verità.
Quanto di vero c’è in superficie e quanto dobbiamo scendere, nell’oscurità degli abissi, per trovarvi una briciola di verità? E quand’anche l’avessimo trovata, siamo così certi che si tratti proprio della Verità ultima?
Ebbene, la Divina, come si faceva chiamare Sarah Bernhardt, ci fa comprendere quanto è labile il confine tra apparenza-realtà.
Narratrice del tragico di ieri, Sarah Bernhardt è affabulatrice della tragedia di oggi. Pertanto, non stupisce vedere il suo nome, a quasi cento anni dalla sua scomparsa, ancora sulle locandine dei teatri, dei festival, nei corsi di studio universitari che esulano dalla pura trattazione della storia del teatro per abbracciare quella comédie humaine difficilmente descrivibile e forse, ancor più, rappresentabile.
Sara Durantini