La presenza di coercizioni, autoimposte o eteroimposte, non sempre ingenera oppressione: la gabbia più insidiosa, quella trasparente e ustionante delle convenzioni e delle credenze sociali, talvolta, è una inaspettata, improvvisa valvola di sfogo, una fuga determinata che conduce alle vette altissime del sé.
È ciò che accade a Emily Elisabeth Dickinson e Emily Jane Bronte, indimenticabili voci letterarie di cui, spesso, viene illegittimamente attutito il timbro acceso, reboante e trasgressivo.
Il libro
Il saggio di Mattia Morretta dal titolo “Tra di noi l’oceano. Modernità di Emily Bronte ed Emily Dickinson”, (Milano Gruppo Editoriale Viator, 2021), con la precisione chirurgica e, di tanto in tanto, spietata di una discettazione che oscilla pericolosamente tra la sensibilità letteraria e l’indagine psicoanalitica, analizza le dimensioni empiriche e psichiche di comunanza tra le due Emily che hanno fatto del linguaggio la creatura vivente attraverso la quale abitare il mondo, ben oltre la loro precaria dimensione temporale e biologica.
“Questa è la mia lettera al mondo
che mai scrisse a me-
notizie che la natura portò –
con tenera maestà
Il suo messaggio è affidato
a mani che non vedo –
per amore di lei – dolci – compatrioti –
giudicate – di me – teneramente”
Scrive Emily Elisabeth per accennare, nei suoi versi privi di punteggiatura, allo straniamento dall’ambiente, alla cesura sanguinante e sanguinaria che la induce a creare un profondo flusso comunicativo monologante.
L’isolamento in Bronte
Parallelamente, Emily Jane fa dire a Mr Lockwood in Cime tempestose “Sono guarito dalla voglia di cercare il piacere della compagnia. Un uomo sensato dovrebbe trovar sufficiente compagnia dentro di sé”, esplicitando la fascinazione per l’isolamento che caratterizzerà le appartate esistenze di entrambe le autrici, lontane e misticamente simbiotiche.
La casa
Se si ipotizza che una casa possa essere ghettizzazione dell’individualità ed esasperazione della solitudine, che la vita di periferia possa essere alienazione dalla socialità, che la religione possa essere una stretta soffocante alla libertà di pensiero e l’amore una manifestazione feroce della natura arcigna.
Talvolta ci si deve avvedere dell’evenienza che la percezione della metafisica esondi da qualsiasi argine antropologico, compenetri le architravi psico-culturali ed eroda prepotentemente il ruvido calcare di status, generi, convenzioni e pregiudizi.
La provincia
Le provincie, sia quella americana di Amherst per Emily Elisabeth che quella inglese di Haworth per Emily Jane, sono alcove surrealistiche, lontane dai grandi eventi di una realtà cittadina civilizzata e confondente, eppure tale isolamento non smorzerà la carica percettiva delle due donne, perenni esuli anche dalla carne del loro corpo.
La fede
In quanto alla fede, Morretta scrive che “Emily and Emily, mentre cresce l’onda del positivismo, sono cristiane, pagane e agnostiche, allo stesso modo di tutti gli esseri umani, che di solito però preferiscono non saperlo o pretendono di vivere su un solo strato antropologico”, chiosando una riflessione generale tra le righe dell’analisi critica sulle due scrittrici.
“ O Dio nel mio petto
Onnipotente onnipresente Divinità
Vita, che in me riposa
Come io Vita Immortale, ho forza in te”
Scrive Bronte, proveniente da famiglia protestante, in una delle sue liriche più amate da Dickinson, sua attenta lettrice, a proposito del poeta-sensitivo, tramite terrestre della divinità dalla quale trae energia e trascendenza lì dove permea la più scabrosa immanenza. E continua:
“Vane sono le mille credenze
Che muovono il cuore degli uomini”,
nella fervida convinzione di un incestuoso sincretismo tra uomo e dio,
tra la bestia e la bellezza, tra il nulla e l’immortalità promessa a basso costo dalla ritualità religiosa.
Dickinson, invece, dilaniata tra calvinismo e illuminismo e completamente refrattaria (con non poca sofferenza) alle logiche dottrinali che legittimano un dio dall’opera ambigua e contraddittoria, scrive
“Per essere salvi –
basta esser salvi –
senza altra formula”,
ammiccando alle recondite possibilità dell’uomo (e della donna!) di concepire la propria umana salvezza attraverso la poesia, coacervo di massimi desideri, irrealizzabili se non per il tramite del sacro.
La sessualità delle autrici
Se Dickinson si autodefinisce “zitella per nascita” e Bronte viene definita (da M. Spark) “celibe per natura”, è la trattazione della loro sessualità irrisolta, personale e reciproca, che rappresenta uno dei capitoli più suggestivi e divisivi dell’opera.
Tra ipotesi di omosessualità e di ermafroditismo in una dimensione in cui sesso e psiche si confondono, si immedesimano tra loro e creano un connubio vivace e mutevole tra generi, velleità identitarie e ruoli sociali scarnificati fino all’osso.
Proprio a partire dalle visioni più truculente della poietica delle due Emily,
non mancano speculazioni dell’autore sulla femminilità e sulla sua ontologia relazionale e comportamentale che, per adesione di pensiero o per rigetto, non possono che suscitare curiosità e desiderio di approfondimento nel lettore.
Sorelle nel dramma
Dickinson e Bronte, sorelle nel dramma dello sconfinamento ideologico e poetico, attratte dall’alterità dell’uguale e respingenti dell’egemonia sorvegliante del diverso da sé, rintracciano nella solidarietà femminile un’alternativa alla moraleggiante realtà sociale che le ghettizza dalla sfera umana a quella letteraria.
Il male come benedizione
Nella fortissima volontà creativa e, talvolta, demolitiva, dell’intelletto femminile, ripetutamente occultata da illogiche pulsioni paternalistiche che ne parcellizzano, da sempre, la perentoria indole indomita e onnivora, “il male si rivela una benedizione” come ci scrive l’autore oppure, forse, è la male-dizione che reca in sé la sorgiva forza di rettifica, insieme linguistica ed etica.
E’ la stessa esuberanza psichica che, nonostante il reiterato massacro del corpo – che torna come damnatio memoriae, censura, menzogna, violenza di genere e discriminazione trasversale a qualsiasi epoca storica- consente a certe voci femminili, al di là del tempo e dello spazio, di rispondere al perpetuo appello dell’esistenza.
Gisella Blanco