Foto di Claudia Spaziani
In Italia le donne non si mobilitano abbastanza. Non militano abbastanza. Non hanno abbastanza autocoscienza. Ma soprattutto non sono abbastanza solidali tra loro. Manca una rete imponente e ciò non significa che non si registrino segnali importanti: questo spazio è uno di essi, ad esempio. Esistono compagini che si danno da fare all’insegna della parità, gente che si rimbocca le maniche e lotta quotidianamente per la causa: questo è innegabile e ci fa ben sperare. Donne che conoscono la storia e magari hanno anche combattuto per migliorare la situazione, sia manifestando, sia con un contributo intellettuale, sia nella pratica. Ma sono luci disseminate qua e là, spesso affidate alla buona volontà del/la singolo/a o di gruppi, alcuni dei quali arroccati sulle loro colline inavvicinabili.
La solidarietà è un lungo processo
C’è qualcosa che non funziona in tutto questo, che non ci porterà ancora ad ottenere la conquista della parità. Perché non siamo sufficientemente solidali tra di noi, perché non facciamo un’unica, resistente rete attraverso la quale reclamare ciò che ancora manca per una vera parità? Forse bisognerebbe partire dal fatto che la sorellanza non è un fenomeno spontaneo, come ha chiarito la scrittrice Maria Rosa Cutrufelli:
«La solidarietà non è scontata, è un lungo processo che richiede un’acquisizione di coscienza femminista, ossia è una presa di posizione politica che, ogni volta, deve essere rinnovata e scelta»
La professoressa Shawn Andrews, che da anni si occupa di queste tematiche, in un articolo per Forbes ha cercato di dare una risposta scientifica al problema. Secondo lei, una legge naturale condiziona le modalità in cui le donne interagiscono con le altre in ogni ambito: la così detta “regola del potere tra pari”. In base a questa, i rapporti femminili si basano su presupposti di rispetto e condivisione solo quando sussiste un’autostima alla pari e reciproca, ma, se da una parte si infrange l’equilibrio, subentrano comportamenti denigratori, rivali o ostili.
La sindrome dell’ape regina
Occorre poi fare i conti con la sindrome detta “dell’ape regina”, secondo la quale le donne, per affermarsi in un mondo di uomini dove spesso sono sottovalutate, si ritroverebbero a emulare comportamenti maschili convalidati dalla società patriarcale. Completa il quadro Phyllis Chesler, nel suo libro “Donna contro donna. Rivalità, invidia e cattiveria nel mondo femminile”: «Le donne competono solo con le altre donne e non con i maschi; molte di loro sviluppano idee sessiste, nonostante di solito tendano a negarlo anche a se stesse. L’oppressione di cui il genere femminile è vittima nella nostra società si traduce spesso anche nelle opinioni e nei comportamenti delle donne verso altre donne».
È possibile superare questi modelli?
Prima occorre scandagliare a fondo il problema (il che richiederebbe una trattazione saggistica, questo articolo non ha pretese di esaustività). Alle teorie suddette, confermate dalla sociologia, credo che vadano aggiunti due fattori (che in realtà finiscono nella categoria delle cause): l’ignoranza e l’individualismo. L’ignoranza di chi non sa cosa è accaduto, quanta fatica, quanto sudore per ottenere un avanzamento nei diritti sul lavoro, in famiglia, nella vita. Questo aspetto riguarda soprattutto le giovanissime che non hanno avuto modo di studiare tali questioni a scuola, certo penalizzate da programmi e da testi scolastici che non contemplano, se non in maniera irrisoria, la storia delle donne.
Talvolta hanno introiettato pregiudizi legati a un concetto deviato e macchiettistico del femminismo, in cui prevale l’idea distorta della donna che spadroneggia sull’uomo e lo umilia. Manca quindi a loro il concetto di base per cui il femminismo auspica una parità tra i sessi, mentre il maschilismo parte da un presupposto di disparità: «Io, uomo, sono superiore quindi mi posiziono un gradino al di sopra». A queste si affiancano donne di una certa età cresciute in un contesto machista dal quale non sono riuscite o non hanno voluto distaccarsi: lo hanno interiorizzato e ne hanno fatto misura della loro etica.
L’individualismo subentra invece nei (numerosissimi) casi di donne consapevoli oppure sedicenti femministe che talvolta remano contro le stesse femministe e non capiscono che facendo loro una sorda guerra, danneggiano la causa.
Le donne che odiano le donne
Poi ci sono quelli che sembrano cliché, come le donne che odiano le donne. Donne tanto gentili e amorevoli e premurose coi maschietti e così implacabili quando devono schierarsi contro le donne. Donne che demoliscono le altre, le sviliscono, nell’illusione di mostrarsi migliori. Spesso accade che coloro che hanno avuto una strada spianata (da conoscenze, da amicizie, da un amore o da un’avventura) mostrino avversione verso coloro che invece si sono fatte avanti da sole, e le tacciano di essere arriviste.
Oppure artiste che sparlano di altre artiste, letterate che ignorano le colleghe e fingono che non esistano per “non fare loro pubblicità” (perché ricordiamolo: sottrarre visibilità è un’arma subdola per annullare chi consideriamo “avversaria”), scrittrici che non nominano le altre scrittrici (e magari le leggono di nascosto). Donne che si credono più colte, più inserite, più sicure. Convinte di emergere o di restare su un piedistallo buttando fango o svilendo le altre, ecco: costoro fanno un grande favore al patriarcato, che se la ride sotto ai baffi e pensa: «L’abbiamo scampata, nemmeno stavolta si arriverà alla parità tra i generi. Queste coglione sono così impegnate a farsi la guerra che non si accorgono quanto si stanno allontanando dal traguardo».
Ovviamente i citati comportamenti coinvolgono anche il mondo maschile: ma che tra donne non ci sia sufficiente vicinanza dispiace, perché è un’occasione mancata (oltre ad essere l’argomento trattato in questa sede).
Si possono recuperare, quindi, queste occasioni?
Io credo di sì. In tanti modi. Ricominciando ogni volta. Facendo attenzione a come consideriamo e trattiamo le altre. A come parliamo ai nostri amici e ai nostri figli/e. A ciò che professiamo e soprattutto a come lo mettiamo in pratica. Sì, sono ottimista, si può superare il cliché della “donna peggior nemica di se stessa” con un po’ di attenzione, informandoci, scegliendo e mettendo da parte l’egoismo. Cercando la consapevolezza e diffondendola, facendone tesoro. Era ciò che auspicava già nel 1974 Dacia Maraini, in “Donne mie”, quando immaginava un grande abbraccio di solidarietà tra di noi. Un messaggio prezioso, che spero davvero non andrà perso:
«Donne mie che siete pigre,
angosciate, impaurite,
sappiate che se volete diventare persone
e non oggetti, dovete fare subito una guerra
dolorosa e gioiosa, non contro gli uomini,
ma contro voi stesse che vi cavate gli occhi
con le dita per non vedere le ingiustizie
che vi fanno. Una guerra grandiosa contro chi
vi considera delle nemiche, delle rivali,
degli oggetti altrui (…)».
Marilù Oliva*
* Marilù Oliva è scrittrice, saggista e docente di lettere. Ha scritto due thriller e numerosi romanzi di successo a sfondo giallo e noir. Ha co-curato per Zanichelli un’antologia sui Promessi sposi e realizzato due antologie patrocinate da Telefono Rosa, nell’ambito del suo lavoro sulle questioni di genere. Collabora con diverse riviste ed è caporedattrice del blog letterario Libroguerriero. Per Solferino ha pubblicato i titoli L’Odissea raccontata da Penelope, Circe, Calipso e le altre (2020), Biancaneve nel Novecento (2021), Le sultane (2021) e L’Eneide di Didone (2022).