Abbiamo incontrato la poeta Anna Maria Farabbi per parlare della poesia di provincia e del cosmopolitismo poetico che esorbita da ogni angolo della terra. Si è creato un flusso comunicativo nel quale è emerso che l’io femmina poetico non si radica (non sempre, non necessariamente) nelle geografie ma nelle persone, nel dialogo, nella reciproca consapevolezza d’esistere.
Come è stato nascere figlia femmina e Poeta?
Terribile: figlia di commercianti, di cultura patriarcale, ho vissuto una pratica di resistenza, un’immediata formazione autodidatta di consapevolezza, autonomia e sostegno alla mia sensibilità.
Ne “Il canto dell’altalena” di prossima pubblicazione per Piedimosca, ti paragoni alla bambina matta di Montelovesco, scrivi “Lei stava all’altalena suonante, come io sto alla poesia: nella stessa drammatica accordatura. E’ un’equazione esistenziale, artistica”. Ci racconti ciò che nell’episodio ti ha segnata?
In ogni luogo, sia nel paese che in città, la diversità di un individuo viene condannata, respinta, schernita. Chi la cela, chi la comprime, sopravvive a stento in un’emorragia esistenziale. Chi riesce a vivere la propria identità acrobaticamente nei codici del sistema necessita di molte forze e molti incontri di conoscenza. Nel piccolo borgo umbro la bambina era irrisa, considerata extra comunitaria in senso letterale. La nostra somiglianza vive per la concentrazione nell’ascolto.
Essere poeta è la coincidenza esatta (o inesatta?) di una precisa genetica spirituale e di una vocazione decisionale controcorrente alla modernità?
Non per me. La poesia mi è venuta addosso.
Dove hai capito di essere Poeta: in paese o in città (o in entrambe)?
poeta minuscola che scrive acqua sull’acqua. Nel corpo, lo sento.
Come e quanto il dialetto ha partecipato della creazione del tuo io poetico e del linguaggio con cui esprimi “la sonorità figurativa nel gioco fra l’io il tu e il noi”?
Molto. Ha fatto confluire in me la tradizione orale, ciò che nell’aria, nell’acqua, nella terra, nel fuoco del mio appennino è venuto al mio sangue. La radice in me sì, ma al tempo stesso mi sento nomade e aperta all’aperto.
Con le parole “Dalle lingue di quella comunità minerale vegetale animale ancora cresco” tratte da “il canto dell’altalena” ci spieghi che l’essere umano continua a espandersi nei luoghi natìi anche se, fisicamente, è andato via. Ci parli della relazione con una realtà provinciale per auto-edificarsi e individuarsi nelle profonde trame della società interiore?
Il nucleo dell’opera è stato entrare nelle viscere abissali del canto occidentale, cioè dentro il mito in sei figure scelte. Dentro la tessitura del mito, ho interpretato dinamiche sociali che sono rimaste pressoché intatte a distanza di secoli. L’apertura biografica in cui ricordo le mie permanenze al borgo di Montelovesco mi è stata utile per leggere le maglie del gioco che condividevo con i contadini pastori miei coetanei, illuminando poi le stesse dinamiche. Rilevandole poi nell’uso quotidiano della lingua. Non ho idealizzazione del paese preferendolo alla città. La lettura dell’umanità ovunque, e della nostra primariamente, spostandoci di luogo in luogo, ci fa crescere in quella consapevolezza disincantata che accennavo prima. Utile, necessaria per un’etica della convivenza, di rispetto per il nostro io profondo, per il tu, per il noi.
Gisella Blanco