giovedì, Novembre 21, 2024
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    Breve discorso sull’esitazione

    C’è una innegabile nobiltà nell’esitare, autentico stato vitale perché sospeso tra tutte le azioni e tutte le inazioni possibili, sospeso, come la vita, tra nascita (del fare) e morte (del decidere).

    Se si volesse rappresentare l’uomo contemporaneo nel suo status più emblematico, nel quale meglio si manifesta il suo disagio, il suo sentirsi/non sentirsi al mondo, davvero non si potrebbe scegliere altro che l’esitazione, il suo dubbioso oscillare tra volontà d’agire e necessità di riflettere.

    In realtà l’inazione non è la risultante di un’unica incertezza (ho scelto tra più opzioni ma rinvio l’azione perché ne temo le conseguenze) ma è già a monte, proprio nel non essere capaci di scegliere tra le opzioni.

    A ben vedere dunque l’attesa non è mai frutto di una vera decisione (che sarebbe allora, in qualche modo, anche azione) quanto mero risultato dell’incertezza, dell’insufficiente conoscenza, della paura.

    E’ l’indecisione che si rispecchia nell’esitazione, nell’attesa di una decisione. Il primo esempio che verrebbe in mente, i dubbi del governatore della Giudea nel processo a Gesù, non è in realtà pertinente: il suo lavarsi le mani è invero una ben chiara scelta, dettata da considerazioni di cinica opportunità ed è stata preceduta da una attenta ponderazione del sogno coniugale, dei rapporti intrattenuti con le autorità ebraiche, della sua effettiva competenza in merito alle colpe dell’accusato, del consenso popolare. Se esempio dev’essere, Pilato è semmai esempio, nemmeno del tutto negativo, di riflessione e decisione politica.

    L’esitazione può quindi nascondere una miriade di ragioni, di variabili, di tensioni irrisolte e, in ultima analisi, la complessità del mondo. In realtà, nella nostra vita siamo spesso dinanzi a profondissime dicotomie: l’angoscia e la fede, l’istinto e la ragione, l’ego e la societas, la diversità e l’uguaglianza, Eros e Thanatos, spirito e materia, anima e corpo, vendetta e perdono…

    In questo orizzonte, resta insuperabile la riflessione di Soren Kierkegaard, che parte da una visione disincantata della vita umana, nella quale la precarietà e l’incertezza sono ineludibili, per poi indicarci l’unica verità possibile, quella soggettiva, recuperata
    dall’individuo durante l’attraversamento della propria vita, costretto di volta in volta a scegliere tra verità estetica e verità etica, tra verità apparentemente oggettive e verità soggettive.

    La sua meditazione, fortemente antihegeliana, giunge, sul tema, a questa affermazione:

    “Se tolgo l’incertezza…non ho più il credente” (in Postilla non scientifica alle Briciole di filosofia, 1846); così lucidamente fondando la fede in Dio sull’incertezza che deriva dall’indimostrabilità della sua esistenza.

    L’esitazione quindi, nella valenza ‘virtuosa’ fin qui accennata, oltre che manifestazione della precarietà umana sarebbe addirittura connaturata al supremo atto del credere per fede.

    Ora, ritornando alle precedenti contrapposizioni, la radicalità della scelta sarebbe forse meglio descritta con la disgiunzione, sostituendo dunque la ‘e’ con la ‘o’.

    Invero la sofferenza più grande non ci proviene dal peso di queste contrapposizioni quanto dal dover compiere, a un certo punto della nostra esistenza, una scelta vera: accoglienza o chiusura, me stesso o gli altri, fede o ragione, amore o rinuncia…o almeno così ci sembra.

    Le recenti frontiere della ricerca nel campo delle neuroscienze, inizierebbero infatti a dimostrare una ragione biochimica delle nostre scelte quotidiane, dalle più insignificanti alle più drammatiche (sono ormai storici gli esperimenti di Benjamin Libet e John Dylan
    Haynes).

    Ma se si arriverà davvero a dimostrare l’illusorietà del libero arbitrio, la possibilità stessa di scelte minimamente libere, cadrebbero tutte le impalcature filosofiche, le responsabilità penali dei comportamenti individuali, la credibilità del sentimento amoroso, il valore stesso dell’atto di fede.

    In realtà, fortunatamente, non saremo mai né sicuri che il libero arbitrio esista né sicuri che non esista, e dovremo mantenere comunque, per ragioni di equilibrio e sicurezza sociale, il principio di responsabilità personale (Sabine Hossenfelder, Dieci errori concettuali in materia di libero arbitrio, Le Scienze,2014,http://www.lescienze.it/news/2014/01/04/news/libero_arbitrio_emergennza_
    propriet_leggi_natura-1950046/ ).

    Ma oggi il vero tema non è tanto la libertà delle scelte o l’esitazione davanti ad una scelta, quanto l’indecisione perenne, il continuo rinvio delle scelte, il senso d’insicurezza; ed è facile prevedere che dovremo sempre più confrontarci e convivere con questa situazione
    di stallo.

    E la situazione individuale spesso degenera, diventa cronica e si estende a livello generazionale e ai luoghi di lavoro, interessando già da tempo la medicina sociale e l’igiene mentale (malattie psicosomatiche, depressioni, patologie del rifiuto). Mentre
    l’esitare lascia ancora sperare che in un futuro, ancorché indeterminato, qualcosa venga deciso, il suo perdurare, la sua oltranza, lo trasforma – e ci trasforma – in tutt’altro.

    L’uomo del novecento era carico di ideologia e di sensi di colpa ma riusciva ancora a reagire, a darsi spiegazioni, a trovare quasi sempre, alla fine, il coraggio di scegliere, e questo anche nelle situazioni estreme, fin dentro i campi di concentramento (basti pensare alla scelta, a qualcuno offerta, tra collaborare con l’aguzzino o rassegnarsi a morte certa).

    A quello d’oggi invece, paradossalmente, quei pesi mancano, è profondamente disorientato, costantemente esitante, privo di argomenti, di parola. L’esitare, quando si dispiega lungo l’intera esistenza, perde la sua aura di nobiltà, di fragilità commovente e diviene mutismo intellettuale, malattia o vizio colpevole, ignavia.

    Insomma, l’esitazione, da timida amica nella crescita si può trasformare in subdola tentatrice, consigliera senza consigli, capace di relegarci per sempre tra i “sanza ‘nfamia e
    sanza lodo” (Dante, Inferno III, 35-36).

     

    Antonio Fiori

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