Foto di Viviana Nicodemo
Nell’hic et nunc contemporaneo, nel quale il singolo sintagma umano si perpetua ossessivamente in un assoluto sfuggente e, scontrandosi con la sua impossibilità di realizzazione, si stritola nel dramma dell’individualità esasperata, la poesia diventa una necessità.
Quella possibilità, ancestrale e attualissima, di svolgere l’uomo, la sua storia e la quotidianità in visioni simboliche e tensioni etiche è, forse, la risorsa psichica più potente per valorizzare la fragilità umana e la sua complessità attraverso la poesia.
Abbiamo dialogato con uno dei più grandi poeti di oggi, Milo De Angelis, la cui parola poetica, a partire dalla seconda metà del Novecento, ha descritto, destrutturato e ricostruito, in chiave lirico-soggettivistica, la percezione del sé.
La crudezza più recondita, nei versi di De Angelis, non cede mai alla lusinga di dispersivi nichilismi, in una attenzione vivida (e mai estatica) alla congerie stupefacente del reale.
Mi piacerebbe iniziare questo dialogo con una citazione filosofica:
“Quando tutto è detto, ciò che resta da dire è il disastro, rovina della parola, cedimento attraverso la scrittura, brusio che mormora: ciò che resta senza resto”.
Si tratta di un passo di Maurice Blanchot da La scrittura del disastro (autore del quale lei ha curato la traduzione dell’opera L’attesa, l’oblio per Guanda) che tratta il dramma esistenziale postmoderno della frantumazione dell’io. L’io che ha disperso la propria unità nel magma irrisolto di una inaccettabile plasticità.
E’ uno sradicamento dell’umano dall’ordine irreale dell’ecosistema esistenziale in cui aveva creduto, pur senza mai vederlo.
Qual è il destino del dilaniato io postavanguardista? Nella sua poesia, si può rintracciare una forza di ricomposizione dell’individualità?
È una strana faccenda, questa frantumazione dell’io: ne sento parlare da quando ho l’età della ragione e non ho ancora capito di cosa si tratta.
Ci sono poeti dall’io potente e persino leggendario, come Gabriele D’Annunzio, che hanno saputo disseminarsi nei flussi della natura fino a diventarne parte: basta leggere “Meriggio”. Viceversa ci sono poeti dall’io volutamente dimesso, come Guido Gozzano o Camillo Sbarbaro, che hanno parlato solo di se stessi.
Il punto non è che l’io sia più o meno granitico. Il punto è lo stile e il linguaggio con cui emerge, di qualunque io si tratti.
E infatti, a proposito degli avanguardisti, l’unico di loro che rimarrà, ossia Elio Pagliarani, ha trovato con la sua pietà oggettiva una chiave che gli ha aperto una mappa originale del soggetto e gli ha permesso di dire se stesso attraverso una ragazza di nome Carla: Carla Dondi, per la precisione, fu Ambrogio, di anni diciassette e di mestiere stenodattilo.
Nella poesia “Largo pomeridiano” contenuta nella raccolta Somiglianze nella sezione liminare “L’ascolto” (ora in Tutte le poesie, 1969-2015 edito da Mondadori, volume a cui mi riferirò per le citazioni dei testi poetici) si legge:
(…)
dove questa morte non è solo svanire
ma insieme, un poco, esserci
alla periferia della gioia
che si apre, reca l’offerta
leggera al brillare di una goccia
ed è escluso il commento
quando le rive al mattino
portano la loro forza
messaggera di un nome, in ascolto,
e traducono la volontà del corpo, la carezza imminente
guardare vivendo qui
la stagione intatta
che ha un tempo per durare
ma spinge più in là
non fruga nelle macerie e chiede
una scrittura inosservata.
“Dis–astro: non essere nel mondo sotto gli astri” scrive Emmanuel Lévinas (in Dio, la morte, il tempo) a proposito dell’efferata dicotomia tra l’esistere e il non.
Il “dis-astro”, qui, appare come un baluginare corposo del dramma tra sé e altro da sé che, nella gioia (periferia generosa del sentimento) reca la possibilità, per l’uomo, di un “guardare vivendo qui” attraverso una “scrittura inosservata”, quasi inconsapevole e nascosta ma capace di firmarsi con un nome, uno solo, mentre si sceglie di non frugare tra le macerie.
Ci parla della sua idea di uomo contemporaneo e di poeta contemporaneo?
Suggestiva l’etimologia enunciata da Lévinas! E la scrittura inosservata, forza segreta, silenziosa e insistente che si muove nei sotterranei della vita, è stata una vera ossessione in quegli anni iniziali della mia ricerca, certamente accompagnata dal magistero di Blanchot e anche dal pensiero indiano, in particolare dalla Mandukya Upanishad, vetta insuperabile della meditazione sull’alfabeto.
Ma la tua domanda finale sull’uomo contemporaneo supera le mie modeste forze.
Posso solo tentare una battuta, riunendo la risposta sull’uomo e quella sul poeta:
vorrei che l’uomo contemporaneo fosse come Arthur Rimbaud e che la donna contemporanea fosse come Marina Cvetaeva,
vorrei che fossero invasi da quell’insieme di audacia, rivolta, senso dell’abisso e amore per la parola che ha percorso l’ opera di questi due grandi.
Nel suo saggio Poesia e destino (Crocetti Editore), nel capitolo “Ancora su poesia e teoria” scrive:
“Da una parte non c’è tragedia se l’eroe cede interamente all’inspiegabile. Ma nemmeno c’è tragedia se l’eroe, altrettanto interamente, sa resistere senza sentire la forza annientante del divino: alla tragedia subentrerebbe il duello cavalleresco, l’epopea della gara tra due nobiltà”.
Nella poesia “Storiografia” (in Biografia sommaria nella sezione “Ringraziamento”) scrive:
Non abbiamo visto niente se non quel vedere
sfioriti i versi e la morte, fallimento muto
degli occhi per noi estratti a sorte.
Nostra Signora delle nebbie perenni e del minuto
di’ quale vita abbiamo vissuto, in quale dimora
la musica delle sfere non scende su Greco e i millenni
sono un metro d’asfalto, naviglio celeste
tra gli altiforni e il capogiro.
“Nell’uomo che liricamente li sveste
i morti trovano consiglio”.
Ci parla del senso della catastrofe – non celebrativa e non autocommiserativa – della sua poetica e ci dice cosa pensa della possibilità che il dramma contemporaneo trovi una codifica letteraria nel sarcasmo (come in Michele Mari, Valerio Magrelli, Stefano Benni, Margaret Atwood per ricordarne giusto alcuni)?
Sono stato indotto in tentazione da Lévinas e provo anch’io ad avventurarmi nel labirinto dell’etimologia, ammirato dall’idea di una “strofa” che incontra l’aspra preposizione “katà”.
Viene ribaltata, non trova più se stessa, smarrisce la sua posizione nell’opera e perfino le sue parole: una catastrofe! Una catastrofe che i poeti conoscono bene, soprattutto quelli ossessionati come me dalla topologia, dal luogo esatto in cui le cose devono situarsi.
Ma la catastrofe più grande e irrimediabile è quella silenziosa che avviene in un luogo segreto di se stessi e assiste sgomenta alla sparizione di ogni possibile parola: non più il silenzio tra due note ma il silenzio di entrambe le note!
Quanto al sarcasmo, ignoro interamente il significato di questa posizione spirituale e in effetti i quattro autori che hai citato mi sono tutti molto lontani.
Nel saggio Milo De Angelis. Le voragini del lirico di Alessandro Baldacci (Mimesis Editore), è riportata una sua dichiarazione “senza la metropoli non avrei scampo”, riferita a Milano, luogo simbolico e archetipico che attraversa tutta la sua opera poetica (un luogo che percorre un’idea e non solo il contrario) e sancisce la volontà di una precisione volumetrica, della misura e della cura dell’estensione ontologica che diventa stretta, ardore, rivelazione di un’eco d’assoluto nella più profonda, radicata e radicale immanenza.
Ci racconta del suo rapporto con la geografia fisica e psichica e in cosa differisce rispetto alla lirica del luogo di altri autori come Zanzotto, Caproni e Sinisgalli?
Naturalmente Zanzotto e Sinisgalli sono estranei alla città ma non per questo meno affascinanti, mentre i luoghi di Caproni – soprattutto Livorno innamorata e Genova notturna – sono lo sfondo perfetto per far vibrare la scena di Annina Picchi o della funicolare sospesa nel vuoto.
La Milano che mi riguarda è la città di un contrasto assoluto. Contrasto tra il buio delle sue anime ferite (gli Scapigliati, Buzzati, Testori, Sereni, Cucchi, Fiori) e la luce delle sue anime diurne e illuministe.
La sua è una storia di distruzioni integrali (Barbarossa, La Peste, Le bombe della seconda guerra, Tangentopoli) e di ricostruzioni fulminee e miracolose e forse in questa alternanza c’è il seme del suo chiaroscuro violento.
Nella nota introduttiva a Poesia e destino, scrive: “A volte ero pienamente d’accordo con me stesso, felice di essere rimasto fedele alle grandi passioni giovanili. Ma molto più spesso non capivo, letteralmente, il nesso troppo segreto tra due termini o due affermazioni”.
L’incomunicabilità è una delle caratteristiche imputate alla poesia moderna. Poiché nella nota parlava dei suoi testi saggistici, mi chiedo se ciò accade anche con la sua produzione poetica più risalente. Mi piacerebbe conoscere la sua opinione sulla poesia contemporanea più criptica, come quella di Amelia Rosselli.
La Rosselli che mi colpisce è proprio quella più criptica, quella che “balbettava parole sconnesse” e insomma quella meno personale, dove il “tu” diventa l’emblema di ciò con cui non si può dialogare, l’archetipo di tutte le possibili perdite e i possibili smarrimenti: “e te cerco sul binario spossato, e te cerco / nella campagna svuotata”.
Lo stesso vale per un altro poeta “criptico” che ho frequentato a lungo, Piero Bigongiari, dove si allarga il campo della visione, si perdono i contorni, tutto è proiettato nel delta del poema e le cose a portata di sguardo fuggono a perdita d’occhio.
Ma ancora più della Rosselli e di Bigongiari mi sconvolge il “kruptòs”di Paul Celan,
dove ciò che è nascosto grida e dove noi siamo trascinati a viva forza in questo grido, che è un grido di orrore e insieme di meraviglia, di stupore e di soccorso, un grido dove “volteggia la neve delle cose taciute”.
In generale il “criptico” in poesia è legato alla velocità associativa, al gesto magico di associare all’improvviso cose in apparenza lontane, ma occorre che emerga il legame sotterraneo tra queste lontananze e si imponga come veritiero, altrimenti il rischio è quello dell’accostamento arbitrario, del surrealismo.
Nelle precedenti sillogi, la “vena”, termine-simbolo estremamente ricorrente, è la via di trasmissione bioelettrica di un dolore dall’esito collettivizzante. Nell’ultima raccolta pubblicata per Mondadori, Linea intera linea spezzata, la poesia “Udienza” recita:
“(…) Le attenuanti non contano: dovevi parlare, dovevi tirar fuori la bestia, esporre il demone nero al pubblico giudizio,
mostrarlo alla primavera, spargerlo per il mondo, guarire”.
Ricorrono i temi della morte e del suicidio come ultimo auto-giudizio: che ruolo ha la poesia nelle istanze più feroci dell’essere umano?
Hai detto bene: il suicidio in quest’ultimo libro è legato al “giudizio”
e si presenta in mille forme tra loro diverse, addirittura opposte, così come sono opposti il suicidio di Seneca e quello di Cesare Pavese, il suicidio rituale di Mishima e quello del dadaista che si uccide “per fare agli amici un ultimo divertente scherzo”.
Ma in questi mesi, studiando le poesie di Sylvia Plath scritte nel 1961, mi ha colpito che questa creatura abbia deciso di morire nel momento più alto e sublime della sua ispirazione, quasi volesse scomparire come essere umano per restare unicamente come poeta.
Nella rubrica “I poeti di trent’anni” sulla rivista Poesia Crocetti, ci mostra tutta la sua preziosa attenzione ai giovani autori. Mi piacerebbe che ci salutassimo con un messaggio rivolto ai giovani poeti che non hanno smesso di credere nella poesia.
Sulla scia di Sylvia Plath, voglio ricordare a ogni giovane poeta che scrivere versi è un gesto pericoloso, un gesto che può portare nei luoghi più sconosciuti della vita e di sé stessi, ma proprio per questo è un gesto potente e insostituibile, capace più di ogni altro di rivelare il senso e il non senso del nostro destino terrestre.
Gisella Blanco