mercoledì, Gennaio 29, 2025
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    La Santità del Padre (Arkadia Editore). Intervista a Giuseppe Foderaro

    Scrivere romanzi è un’attività intellettuale e artistica di cui, molto spesso, non vengono rispettate la complessità e la necessità di un’attitudine autoriale ben delineata e continuamente rinvigorita da letture, confronti e uno scrupoloso, perpetuo labor limae. Eppure questa è una società che, molto di più che in altri periodi storici, ha bisogno di storie e di qualcuno che sappia raccontarle bene, anche se sono inventate, perché l’attività creativa non è solo quella dello scrittore ma anche quella del lettore. Ogni lettore ricerca una piccola parte di sé in ciò che legge, perfino nelle narrazioni apparentemente più lontane, meno affini alla propria personalità e più difformi dal proprio vissuto: non è emulazione o mero desiderio di solidarietà emotiva o mnemonica. Si tratta della possibilità di ripopolare l’abisso di altre profondità sconosciute e complici del senso d’imperfettibilità dell’uomo che, al suo apice, appare come la migliore ispirazione esistenziale.

    Abbiamo dialogato con Giuseppe Foderaro, romanziere, drammaturgo e sceneggiatore che, con le sue storie, sa appassionare molti lettori italiani.

    “La santità del padre” è il suo ultimo romanzo, uscito a giugno per Arkadia Editore, con un’ottima diffusione nelle maggiori librerie d’Italia. La trama, fitta e dettagliata, parla dell’evoluzione di personalità complesse che accolgono la propria plasticità caratteriale ed emozionale, nonostante i condizionamenti culturali e religiosi: l’atto di “rifiutare una serie di gerarchie e protocolli radicati da secoli” è una vocazione psicologica che si può rintracciare in ciascun essere umano che abbia consapevolezza (e rispetto) dei propri archetipi e della natura non necessariamente condizionata del futuro. La capacità di saper divergere dal proprio passato è una risorsa dall’imprevedibile potenziale e dagli effetti “terapeutici” inaspettati, per se stessi e per gli altri. Non si sa mai cosa può accadere se si cambia punto di vista.

    Sui social hai da poco condiviso una foto che ritrae il quaderno su cui hai scritto il romanzo, due anni fa, mentre eri a Parigi. Come nasce una storia, tra caffè letterari europei e scrivanie domestiche?

    Parigi è il mio rifugio da diversi anni. Ci torno tutte le volte che posso, di solito ogni tre mesi, il suo fervore socio-culturale è una continua fonte di ispirazione per me. Adoro la vie germanopratine, trascorro ore e ore al Café de Flore, dove sono nati i miei ultimi romanzi, compreso La santità del padre. Mi piace iniziare da lì il viaggio sulla pagina, anche se poi mi porterà ineluttabilmente da tutt’altra parte. Salgari sosteneva che scrivere è viaggiare senza la seccatura dei bagagli; e io sono d’accordo, a me basta una Moleskine e una Bic blu, poi mi lascio andare a una sorta di flusso di coscienza, tra il tintinnio dei bicchieri e quei “ouais ouais” degli avventori recitati come un mantra in sottofondo. Alla fine, una volta tornato a casa, monto il tutto sul Mac e sviluppo in religioso silenzio personaggi e ambientazioni facendo le dovute ricerche del caso. È così che nasce la prima stesura (la mia preferita, quella imperfetta. Quella più vera).

    Le figure principali del romanzo sono uomini eppure uno spazio particolare, raccolto ma molto evocativo, è dedicato ad alcune figure femminili che appaiono quasi come impalpabili visioni e che influenzano le vite dei protagonisti e tutta la narrazione in modo delicato ma estremamente significativo. Ce ne parli?

    La santità del padre può sembrare fin dal titolo un libro tutto al maschile, ma non lo è affatto, e se mi concedi una breve premessa te lo dimostro. Come si evince già dalla prima pagina, il libro è dedicato a mio padre, e questo perché è uscito quest’anno in cui io compio quarantotto anni, che è l’età che aveva il mio babbo quando invece è venuto a mancare. Nel 2021, pertanto, lui e io diventiamo idealmente coetanei. Oltretutto mio padre si chiamava Luigi, e allora ho dato a tutti i personaggi-chiave del libro un nome che iniziasse con la lettera “L” (Lorenzo, Ludovico, Leda, Luigi, Luca…). C’è da dire, però, che La santità del padre nasce in realtà da riflessioni sulla madre. Ma non sulla mia, che comunque chiamo “La Papessa” per il suo integralismo cattolico (quella della Papessa è una leggenda medievale che vorrebbe che ci sia stato un pontefice di sesso femminile che abbia regnato sulla Chiesa dall’853 all’855 con il nome di Papa Giovanni VIII, N.d.A.). La madre su cui ho riflettuto durante la stesura del romanzo è Madre Natura. Il tema di fondo del libro, infatti, è la contrapposizione tra la natura e l’essere umano. Per di più ci sono due donne nella storia. La prima è Leda, la mamma di Lorenzo, il protagonista. Un tipino niente male, con i capelli corti tagliati alla maschietta, forte, generosa, capace di sovvertire un po’ tutti quegli schemi della società degli anni ‘50. L’altra è l’amica cronista dei fratelli Coisson, colei che li ha lanciati nell’olimpo del giornalismo d’inchiesta e con la quale Lorenzo vive amplessi selvaggi, condividendo con il fratello l’esperienza e quella innocente promiscuità che li ha sempre contraddistinti.

    Nel testo compare la presenza di un gatto, silenzioso testimone del momento più dilaniante e più formativo del personaggio principale della storia. Chi ti conosce sa che hai avuto un compagno fedele di scrittura e di vita, il gatto Holden. Ci racconti un episodio indimenticabile con lui e di come, a volte, un gatto o un cane possono essere imprescindibili muse d’ispirazione?

    Holden è stata la “persona” più importante della mia vita, colui che mi ha insegnato e dato di più in assoluto. Si metteva accanto a me quando scrivevo, e cominciava a mordicchiare i miei appunti finché non davo una penna e un quaderno anche a lui. Era buffo, si stendeva su un fianco, afferrava la biro con entrambe le zampe anteriori e cercava di scarabocchiare il foglio. I nostri amici a quattro zampe sono le più grandi muse che siano mai esistite.

    Sia per “La santità del padre” (Arkadia Editore) che per “Esoscheletro distopico” (Mursia), hai ricevuto moltissime recensioni positive, persino da parte di critici famosi, brillanti e, spesso, polemici come Gian Paolo Serino. Qual è la chiave comunicativa e stilistica per appassionare lettori fra loro molto diversi ma sempre esigenti?

    Forse la chiave è non scrivere mai per compiacere chicchessia, occorre narrare storie originali con la propria voce e non con quella della “moda” del momento. Stimo molto Serino, e a suo dire la cosa è reciproca. Il suo parere sui miei lavori mi lusinga davvero oltremodo.

    Parliamo dell’editoria. Hai avuto brutte esperienze nella tua già lunga carriera di scrittore? Cosa pensi dell’editoria italiana indipendente?

    Oh sì, come tanti ho avuto anch’io delle pessime esperienze con agenti, editori, ecc. Fa parte del gioco. Un gioco sfiancante, che non dovrebbe neanche essere tale. È un duro lavoro, invece, fatto di arte e artigianato. Personalmente continuo a credere nella potenza del manoscritto di chi scrive seriamente. Quella per me è letteratura. Ciò che arriva in libreria spesso è un’altra cosa. Ma tornando alla tua domanda, credo che l’editoria indipendente oggi sia l’unica capace di sfornare libri degni di questo nome.

    Scrittura e teatro: qual è il peso specifico della loro relazione nella tua vocazione artistica?

    Il testo teatrale, a differenza della sceneggiatura cinematografica, è un’opera letteraria a tutti gli effetti, si può leggere anche autonomamente. Come dico spesso, ho venduto l’anima al dialogo, mi piace scriverli, lo trovo divertente, sfidante. Il dialogo nel teatro è come qualsiasi altro gesto, il linguaggio drammaturgico è spiccatamente performativo, pieno di espressioni allocutive e imperativi, le frasi pronunciate dagli attori sono legate alle loro azioni. A me capita sovente, nei miei romanzi (per esempio in Esoscheletro Distopico), di scrivere i dialoghi come se fossero quelli di una pièce.

    Quanto incidono i social nel successo di un’opera?

    Aiutano parecchio, soprattutto a quelli come me che scrivono perché odiano parlare e centellinano al massimo le presentazioni de visu.

    Salutiamoci con un consiglio che pensi sia necessario per esordire come scrittore, in un contesto letterario e giornalistico così complesso come l’attuale.

    L’unico consiglio che mi sento di dare è quello di leggere. È necessario leggere molto per usare bene le parole. “Le parole sono importanti” diceva Nanni Moretti in Palombella Rossa. È la parola a qualificarci, è la parola che ci distingue dalle bestie, che invece sono àloga – con l’alfa privativa – ossia sprovviste di parola (questo lo diceva Aristotele, che non era di sinistra come Nanni Moretti, anzi, era un conservatore. Lo cito per par condicio). Bisogna conoscere la grammatica prima di iniziare a scrivere. Dobbiamo smettere di pensare che la grammatica sia una roba da sfigati. La grammatica è glamour. Lo è innanzitutto etimologicamente: “glamour” deriva proprio da “grammatica”, e allora iniziamo da qui.

     

    Gisella Blanco

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