Ci sono scrittori che non si dimenticano, ogni libro è un’illuminazione, una sorpresa, una scoperta, sono quelli che lasciano un segno, come Emanuele Trevi.
Lui stesso somiglia agli incontri di cui racconta nei suoi libri, come in Qualcosa di scritto, o nell’ultimo, Due Vite, selezionato nella dozzina del premio Strega 2021. Abbiamo avuto il piacere di conversare con lui in diverse occasioni, in questa però facciamo sue le parole con cui ha descritto Petrolio, opera postuma di Pier Paolo Pasolini: ‘’Così capace di trasformare qualcosa di scritto nell’esperienza suprema della vita, molto oltre il concetto stesso di letteratura’’.
In Trevi c’è molto di spirituale, quasi religioso, nella conoscenza dell’altro, nella relazione fra scrittura e sé stessi. Un varco, in quell’insidia della soglia di cui Y, Bonnefoy, che è mera illusione e che se siamo adusi a varcare si aprirà sulla verità. Questo fa la letteratura e di questo Emanuele Trevi è un maestro.
‘’[…] Morire come in effetti si muore, eiaculando nel ventre materno’’. Pier Paolo Pasolini, Petrolio, Appunto 99.
In che modo si manifesta il sacro, il senso della spiritualità e della religiosità in Emanuele Trevi e nella sua produzione letteraria?
Mi capita spesso di interrogarmi su delle situazioni umane portate all’estremo. Non è tanto il discorso della religiosità. Tu mi hai fatto un domandone ma io non voglio darti un rispostone. Direi che ho un interesse per le forme del misticismo che sono caratterizzate da un movimento psichico in cui ogni volta che si ottiene quella che i mistici chiamano l’Unione, poi si torna indietro. Ci si sveglia dentro uno stato di abbandono.
Questo ha molto a che fare con la scrittura letteraria, con l’ispirazione, con le cose che mi interessano. Io parlo di queste cose dal punto di vista di chi non ha mai avuto delle esperienze. Sono totalmente condizionato mentalmente da un’incapacità di credere in qualcosa che sia oltre il nostro essere inseriti in questo oceano della materia e che di per sé è una religione. Lo vedo anche in altri scrittori.
Emmanuel Carrère ha scritto quel libro bellissimo, Io sono vivo, voi siete morti, che è la vita di Philip Dick, e poi scrive, Il Regno, quasi come seguito, la vita di San Paolo, e si pone questo problema qui: in entrambi i casi, cosa distingue il fondatore di una religione da un paranoico?
Non c’è una maniera. È discorso molto affascinante della letteratura. Anche James Hillman il grande psicoanalista junghiano scrive un saggio bellissimo del 1974 sulla paranoia, su questo tema qui.
Quello che di solito mi mette un po’ in dubbio è l’esperienza che in questo caso è di lettura, di documentazione, di comprensione. Io sono curioso, in quanto la mia struttura mentale è quella del critico, non intendo solo dei libri. Però parlo di oggetti reali, di cose che provengono dall’esterno.
Sono degli itinerari anche molto lunghi. Di una mente che ami, cerchi di capire qual è il limite, qual è la possibilità, qual è la strada imboccata.
E cosa trovi?
Spesso trovi un punto religioso. L’essere che scrive che io più amo, Katherine Mansfield, arriva a questo ‘’religioso’’. Se leggi i Diari, le lettere, il rapporto con il grande santone russo, Gurdjieff, capisco quella cosa lì, comprendo come la vita si possa configurare come una ricerca di assoluto. Questo è un elemento della narrazione.
Ti faccio l’esempio del mio romanzo, Due vite. Chiaramente in uno dei protagonisti, in Pia Pera, c’è una ricerca di carattere religioso che arriva a un certo punto della sua vita, il momento in cui lei ha attraversato delle età e in cui la ricerca di assoluto era meno evidente. Non è una condizione che possa andare distinta dalla biografia. Fa parte quindi della narrativa. Alberto Savinio la definisce con una espressione bellissima, definisce se stesso il suo personaggio autobiografico: esploratore dell’inesplorabile.
Ecco, per me il misticismo è questo movimento di andata e ritorno, di andare nell’inesplorabile e di tornare indietro.
Tornare indietro cosa vuol dire?
Indietro c’è l’origine della scrittura, anche come frustrazione, come desiderio mancato di rimanere lì nell’assoluto.
È come quando facciamo un sogno e diciamo che è così bello che vorresti restare lì. In questo essersi svegliati dal sogno però abbiamo la capacità di scrivere, di rappresentare, e, quindi, la rappresentazione è fatta della gioia della cosa che è stata posseduta un attimo e del rimpianto per non averla trattenuta. Se mi chiedi una dimensione religiosa per me è questa.
Un ragionamento per me è valido quando lo è sia per la mente religiosa che per la mente non religiosa. Le dottrine nelle religioni mi danno fastidio. Non ho una capacità di identificazione con dei fatti che riguardano la vita associata religiosa.
In questa tua andata e ritorno ci intravedo una soglia. Quel varco tra ciò che è fisico e ciò che è metafisico e lo scrittore è lì sulla soglia. Il mito di Persefone è anche questo o sbaglio, a proposito di misteri eleusini?
Se ripartiamo da Eleusi, la domanda è: che cosa facevano? Intanto si drogavano, prendevano il ciceone, chi ha capito cosa fosse era Hofmann, l’inventore dell’Lsd, un uomo molto colto che si domandava come mai i greci che non avevano i laboratori chimici riuscivano ad avere certi effetti. Digiunavano tre giorni. Andavano da Atene ad Eleusi, che è un posto distante, un pellegrinaggio serio. Bevevano questa cosa, entravano in questa sancta sanctorum e avevano una visione. Da quel momento cambiava la loro vita. Platone dice: chi ha bevuto il ciceone non tornerà più indietro. Questo significa che la religiosità, il misticismo, rendono irridente un fatto della vita umana. L’hai definito benissimo: l’esistenza di soglie.
Quali sono le soglie?
La prima, che tutti sperimentiamo, è il tempo. Io ho più di cinquanta anni non ne potrò più avere quaranta.
Poi ci sono delle soglie di cui abbiamo esperienza. Per esempio, i cosiddetti viaggi iniziatici. Sono delle esperienze che comportano una specie di morte rituale, nel senso che l’identità si annulla. Quindi quell’uomo che si allontana e poi torna a casa non è quell’uomo che è uscito da casa.
Chi è?
Non è un altro, è una persona dotata della sua identità, della sua memoria, però l’esperienza lo ha cambiato profondamente.
La letteratura riesce a catturare questa trasformazione?
Sì, la letteratura è lo strumento per catturare questo fenomeno, perché queste sono esperienze che hanno la loro verità solo se si radicano nel singolo individuo e la letteratura è la lingua del singolo individuo. La letteratura è un’esperienza di reazione alla pressione del mondo, non ragiona per classi.
Cioè quando scriviamo un testo letterario, l’esperienza pesa interamente sul soggetto, almeno la letteratura in senso moderno. La letteratura antica è diversa, perché portava con sé un sapere collettivo, pensa agli eroi di Omero. Con il Romanticismo cambia tutto, perché si sono sviluppati i saperi: la giurisprudenza, la medicina, ecc, quindi la letteratura non ha più bisogno di informare su di niente.
E cosa resta?
Resta la letteratura, perché resta la lingua del singolo individuo.
E’ come se tutta la letteratura a un certo punto fosse quella che gli antichi chiamavano la ”lirica”, perché gli antichi dicevano: se vuoi esprimere soggettivamente il tuo pensiero questa è la lingua, la lirica. Tutto è lirica, E. Allan Poe è lirica, Leopardi, tutto è lirica. Noi siamo figli di questa rottura.
La letteratura è la lingua del singolo. Spiegaci meglio.
Nessuno di noi oggi scriverebbe un poema sugli atomi come faceva Lucrezio, parliamo solo di noi stessi. Inoltre, poiché l’ottica del singolo individuo è preziosa, credo che la letteratura non finirà mai. La lingua della soggettività è eterna.
Pensaci. Che cos’è che ti piace in un romanzo? La cosa più stupida: l’identificazione col personaggio, perché ti assomiglia. Questa è solo l’esca. Qualunque personaggio è uguale a te.
La cosa più profonda, invece, è che non esisterà più una persona come Madame Bovary. Come i famosi fiocchi di neve che sono simili ma differenziati all’interno della loro struttura, uno per uno, così gli esseri umani configurano un destino che non può essere di nessun altro essere umano. E questo è un fatto attraente, commovente, e, per una persona come me, ha del sacro. Per chi come me non crede in una religione costituita.
Tu non ami la parola intellettuale?
No, è una parola che mi sta un po’ antipatica, riporta al generale, perché l’intellettuale può occuparsi di categorie politiche che non riguardano il singolo individuo e non è proprio il mio mestiere.
Perché scrivi sempre di persone morte?
Fin da ragazzino mi interessa solo il singolo individuo, perché il singolo sbaglia, si arrabatta, quindi il suo è un sapere che mi interessa. Ho avuto sempre una vocazione per la critica letteraria e artistica e mi incuriosisce questo aspetto qui.
La domanda non è sui motivi della scelta di persone morte. La domanda è un’altra. Il libro su Pia Pera e Rocco Carbone è su due persone meravigliose, ma non lo avrei scritto se non fossero state persone che a loro volta avessero lasciato delle tracce scritte. Arturo Patten sarebbe stato mio amico anche se fosse stato cieco, però il criterio di pertinenza è che abbia fatto delle cose importanti che meritano di essere, non rivalutate da me figuriamoci, ma che meritano di durare nel tempo, questo è il motivo per cui lo racconto.
Emmanuel Bove, autore francese degli anni Trenta, ha scritto un libro che mi ha influenzato moltissimo, I miei amici, che parla delle persone che vedeva al bar. Lo trovo legittimo, ma io sono nato interprete di cose, quindi scrivo, racconto di persone che hanno fatto cose che mi interessano e queste sono i prodotti artistici. Quindi una sfida all’informe.
Che cosa ti interessa dei tuoi personaggi?
In che modo hanno reso il mondo esterno un oggetto interno. Come è avvenuto il passaggio dall’esteriore all’interiore. Vedevano il mio stesso mondo e come è possibile che ne abbiano ricavato quello sguardo artistico? Questo posso farlo anche con uno scrittore che non ho mai conosciuto. Certo, diventa meno attraente se lo faccio per esempio con Leopardi, perché non ho la condivisione dell’esperienza. Ho scritto sempre libri dalla prospettiva dell’ammirazione.
La letteratura è una cosa tremenda perché fino a quaranta anni non sai se l’investimento che fai su te stesso ti ritorna indietro in qualche modo, lasciando da parte le solite eccezioni di Rimbaud e Leopardi, o se sei un pazzo uno che sta perdendo tempo. Prima che capisci di aver scritto qualcosa di buono passa moltissimo tempo e spesso il successo di una cosa che hai fatto all’inizio è anche un nemico, a me è accaduto con due libri ai miei esordi che mi hanno creato una posizione, ma sono arrivato a quarant’ anni per scrivere veramente quello che volevo e questa cosa non succede con nessuna arte. Perché si capisce prima quello che vali.
Mariagloria Fontana